INFERNO, CANTO I
Testo
Nel mezzo del cammin di nostra vita
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Parafrasi
A metà del percorso della vita umana (all'età di 35 anni), mi ritrovai per una oscura
foresta, poiché avevo smarrito la giusta strada.
alzai lo sguardo e vidi la sua vetta già illuminata dai raggi del sole, che conduce ogni
uomo sulla giusta strada.
così il mio animo, che ancora era in fuga, si voltò indietro ad osservare il passaggio che
non lasciò mai passar vivo nessun uomo.
e non si allontava di fronte a me, anzi, impediva a tal punto il mio cammino che io pensai
più volte di tornare indietro.
mosse per la prima volta quelle belle cose; così l'ora del giorno e la stagione primaverile mi davano buoni motivi per sperare bene a proposito di quella belva dalla pelle chiazzata;
ma non al punto che non mi desse paura la vista, che mi apparve subito dopo, di un
leone.
Questi sembrava venire contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, al punto che
persino l'aria sembrava tremare.
questa mi procurò una tale angoscia, col terrore che mi ispirava il suo aspetto, che persi
la speranza di raggiungere la sommità del colle.
così mi rese la belva senza pace, che venendo contro di me mi sospingeva poco a poco verso
il basso, dove non c'era il sole.
dove udirai le grida disperate e vedrai le antiche anime dei dannati, ciascuno dei quali
invoca la morte definitiva.
ti chiedo ti condurmi là dove hai detto, così che io veda la porta di San Pietro e coloro
che descrivi tanto miseri».
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Dante e le tre fiere (G. Stradano, 1587)
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura,
esta selva selvaggia e aspra e
forte
che nel
pensier rinova la paura!
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza
e molte genti fé già viver grame...
"A te convien tenere altro viaggio,"
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
"se vuoi campar d'esto loco
selvaggio..."
Dante si smarrisce nella selva oscura. Incontra le tre
fiere: lonza, leone, lupa. Viene soccorso da Virgilio, che lo guiderà in un viaggio attraverso Inferno e Purgatorio,
mentre Beatrice lo guiderà in Paradiso. Profezia del veltro.
È la notte tra giovedì 7 aprile (o 24 marzo) e venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.
La notte del 7 aprile (o 24 marzo) dell’anno 1300, dunque a trentacinque anni di età, Dante si smarrisce in una selva oscura e intricata, impossibile da descrivere tanto è angosciosa. Lui stesso non sa dire come c’è finito, poiché era pieno di sonno quando ha perso la giusta strada: a un tratto però, mentre sta albeggiando, si ritrova ai piedi di un colle, dalla cui vetta vede spuntare i primi raggi del sole. Questo, oltre al fatto che è primavera, gli ridà speranza e lo spinge a tentare la scalata del colle, dopo essersi riposato per qualche istante e aver ripensato al pericolo appena corso (come un naufrago che guarda le acque in tempesta dalle quali è appena scampato). Il poeta inizia quindi a salire la china del colle, ma con grande fatica e incertezza.
W. Blake, Dante nella selva
Mentre sta salendo il colle, gli appare improvvisamente una lonza dal pelo maculato, assai
agile e snella, che lo spinge più volte a tornare indietro. All’inizio l’ora del mattino e la stagione mite gli danno speranza di poterne avere ragione, ma subito dopo compare
un leone, che gli viene incontro con fame rabbiosa e sembra far tremare l’aria, e
una lupa famelica, tanto magra da sembrare carica di ogni bramosia. Quest’ultima
incute molta paura in Dante, che perde ogni conforto e lentamente scende verso il basso, nella zona non illuminata dal sole.
Presentazione di Virgilio (61-90)
Dante sta tornando verso la selva, quando intravede una figura nella penombra, appena visibile nella poca luce dell’alba. Intimorito, supplica lo sconosciuto di avere pietà di lui e gli chiede se
sia un uomo in carne ed ossa oppure l’anima di un defunto. L’altro risponde di non essere più un uomo in vita, ma di avere avuto i genitori lombardi e di essere originario
di Mantova. Si presenta come Virgilio, il poeta latino vissuto al tempo di Cesare e Augusto, ovvero durante il paganesimo, e che ha cantato le gesta
di Enea nel poema a lui dedicato. Virgilio rimprovera Dante perché sta scivolando
verso il male della selva, mentre dovrebbe scalare il colle che è principio di felicità. Dante risponde a sua volta con ammirazione, dicendo a Virgilio che lui è il più grande poeta mai vissuto e
dichiarando che è il suo maestro e modello di stile poetico. Si giustifica indicando la lupa come la bestia selvaggia che gli sbarra la strada, pregando Virgilio di aiutarlo a
superarla.
G. Doré, Dante e la lonza
Virgilio riprende la parola spiegando a Dante che, se vuole salvarsi la vita, dovrà intraprendere un altro viaggio. Infatti la lupa è animale particolarmente pericoloso e malefico, incapace di soddisfare la propria fame, che uccide chiunque incontri. Virgilio profetizza poi la venuta di un «veltro», un cane da caccia che ucciderà la lupa con molto dolore e la ricaccerà nell’Inferno da dove è uscita. Costui non sarà interessato alle ricchezze materiali ma ai beni spirituali, e la sua patria non sarà nessuna città in particolare. Egli sarà la salvezza dell’Italia, per la quale già altri personaggi hanno dato la vita, come i troiani Eurialo e Niso, la regina dei Volsci Camilla, il re dei Rutuli Turno, tutti cantati dallo stesso Virgilio nell’Eneide.
P. Della Quercia, Dante e Virgilio
Virgilio conclude dicendo a Dante che dovrà seguirlo in un viaggio che lo condurrà nei tre regni dell’Oltretomba: dapprima lo condurrà attraverso l’Inferno, dove sentirà le grida disperate dei dannati; poi lo guiderà nel Purgatorio, dove vedrà i penitenti che sono contenti di espiare le loro colpe per essere ammessi in Paradiso. Qui, però, non sarà Virgilio a fargli da guida: egli non ha creduto nel Cristianesimo, quindi Dio non può ammetterlo nel regno dei Cieli. Sarà un’altra anima, più degna di lui, a guidare Dante in Paradiso, ovvero Beatrice. Dante risponde a Virgilio pregandolo di fargli da guida in questo viaggio, poiché è ansioso di vedere la porta di san Pietro e le pene dei dannati. Virgilio inizia a muoversi e Dante lo segue.
Il canto I dell’Inferno è di introduzione all’intero poema, presenta quindi la situazione iniziale e
spiega le ragioni del viaggio allegorico: Dante vi compare nella duplice veste di personaggio reale, che in un determinato momento storico si smarrisce in una selva (a metà della sua vita, quindi
nell'anno 1300 quando stava per compiere 35 anni), e in quella di ogni uomo che in questa vita è chiamato a compiere un percorso di redenzione e purificazione morale per liberarsi dal peccato e
guadagnare la beatitudine. Sul piano allegorico, dunque, la selva rappresenta proprio il peccato (essa è infatti descritta come selvaggia e aspra e forte, spaventosa al solo ricordo e poco meno amara della morte stessa), mentre su
quello letterale è un luogo in cui chi compie un viaggio rischia realisticamente di smarrirsi per essere uscito dalla diritta via, per cui i lettori del tempo di Dante potevano trovare familiare un paesaggio simile (all'epoca le zone
boscose erano assai estese e selvatiche, come per esempio in Maremma: cfr. Inf., XIII, 7-9). Altrettanto realistici
gli altri elementi del paesaggio simbolico, a cominciare dal colle che allegoricamente raffigura la via alla felicità terrena, cioè al possesso delle virtù cardinali (fortezza, temperanza,
prudenza e giustizia) per le quali la ragione umana è sufficiente, e che Dante tenta inutilmente di scalare vedendo sorgere il sole dietro la sua vetta (esso rappresenta la via verso la salvezza,
oltre all'ovvia considerazione che il nuovo giorno dissipa le paure della notte e ridona al poeta nuova speranza). Le tre fiere che sbarrano il passo al poeta e lo ricacciano verso la selva sono
invece le tre principali disposizioni peccaminose: la lonza è la lussuria, il leone è la superbia, la lupa è
l’avarizia-cupidigia, secondo una tradizione già attestata dai commentatori medievali, e anch'esse
ovviamente rappresentano tre animali selvaggi che non erano certo impossibili da incontrare in un effettivo viaggio attraverso una foresta (tranne naturalmente il leone, ma nulla conferma che il
viaggio dantesco avvenga in Italia e d'altronde vari interpreti hanno ipotizzato che questi luoghi si trovino in realtà nei pressi di Gerusalemme, sotto la quale si spalanca la voragine infernale). Più pericolosa è la
lupa-avarizia, radice di tutti i mali e per Dante causa prima del disordine politico e morale che regnava in Italia all’inizio del Trecento, di cui è simbolo del resto anche la selva, mentre va
ricordato che in molti passi del poema egli si scaglia con forza contro la corruzione del mondo politico ed ecclesiastico del suo tempo, causata principalmente proprio dall'avidità di denaro. La
lupa si rivela un ostacolo insuperabile e Dante lentamente scivola nuovamente verso la selva, cioè il peccato.
La seconda parte del Canto vede come protagonista Virgilio, che sarà la prima guida di Dante nel viaggio ultraterreno e che è allegoria della ragione umana dei filosofi antichi, guida sufficiente
a condurre l’uomo al pieno possesso delle virtù cardinali: egli giunge in soccorso del poeta in modo inaspettato, come un'apparizione spettrale, tanto che Dante gli chiede timoroso se
sia ombra od omo certo. La risposta del poeta latino
è una vera e propria prosopopea, un'elegante auto-presentazione in cui Virgilio non fa direttamente il proprio nome (sarà Dante a citarlo al termine delle sue parole) e si manifesta come l'autore
dell'Eneide, il poema che era considerato
il capolavoro della letteratura latina e il cui protagonista, Enea, è centrale nella tradizione classico-cristiana, in quanto fondatore della stirpe romana e, indirettamente, di
quellaRoma che sarà centro dell'Impero e della Chiesa. Virgilio rimprovera Dante del
fatto che non sale il dilettoso monte che è principio di ogni
felicità e il poeta fiorentino risponde indicando Virgilio come il suo maestro, colui da cui ha tratto l'alto stile tragico che gli ha dato la fama, invocando poi il suo aiuto contro la
lupa-avarizia che lo riempie di terrore e costituisce uno sbarramento insuperabile: la successiva risposta di Virgilio si divide in due parti, la prima delle quali dedicata alla profezia del
«veltro» che ricaccerà la lupa nell'Inferno da dove è uscita (per le molte interpretazioni di questo personaggio si veda oltre), la seconda al viaggio nell'Oltretomba che Dante dovrà affrontare
se vuole scampare da questo loco selvaggio, e in cui sotto la sua guida
visiterà Inferno e Purgatorio, mentre se vorrà visitare anche il Paradiso dovrà attendere la guida di Beatrice, in quanto Virgilio è pagano e non è quindi ammesso nel regno di quel Dio che non ha
conosciuto. Allegoricamente Beatrice raffigura la grazia santificante e la teologia rivelata, che sola può portare l'uomo alla salvezza, mentre è affermata fin dall'inizio l'insufficienza della
ragione naturale, che è in grado di condurre l'uomo al possesso delle virtù cardinali e a una condotta onesta, ma non di arrivare alla beatitudine eterna: è questa l'ossatura allegorica
dell'intero poema e la cosa diverrà chiara già dal Canto II, in cui Virgilio rievocherà
l'incontro con Beatrice nel Limbo e spiegherà che il viaggio di Dante è voluto da Dio, dunque non
è folle in quanto non
affrontato col solo ausilio della ragione dei filosofi che Virgilio rappresenta. La scelta di questo personaggio come guida nella prima parte del viaggio è stata molto discussa, in quanto Dante
avrebbe potuto scegliere un filosofo come Aristotele o un personaggio storico come Catone Uticense, ma Virgilio nel Medioevo era
ritenuto un pensatore al pari degli altri grandi filosofi antichi, inoltre si riteneva che avesse intravisto alcune verità del Cristianesimo e le avesse preannunciate nelle sue opere (specie
nella famosa Egloga IV: cfr. Purg., XXII, in
cui Staziodichiara di essere diventato cristiano grazie alla lettura di quei versi); egli
era anche il principale scrittore dell'età di Augusto, sotto il cui Impero il mondo aveva conosciuto pace e giustizia, indispensabili secondo il pensiero medievale affinché potesse diffondersi il
Cristianesimo, per cui l'autore dell'Eneide era in realtà una
scelta quasi obbligata come maestro e guida di Dante nel viaggio attraverso i primi due regni ultraterreni. È interessante inoltre osservare che dopo questo primo incontro fra discepolo e maestro
si creerà un rapporto di reciproco intenso affetto, per cui Virgilio accudirà Dante come un figlio e questi ricambierà le cure con profondo rispetto e deferenza, fino al momento della separazione
in cui Dante si abbandonerà a un pianto disperato (Purg., XXX, 40 ss.). Il Canto si chiude
con Dante che, pieno di speranza e di buoni propositi, si accinge a seguire la sua guida per giungere nei luoghi che gli ha preannunciato, salvo poi (all'inizio del Canto seguente) venire
assalito da dubbi e timori, che Virgilio fugherà raccontando del suo incontro con Beatrice.
È una delle più note e oscure della Commedia, evocata da Virgilio che preannuncia la venuta di questo misterioso personaggio destinato a cacciare e uccidere la lupa-avarizia dall’Italia e dal mondo (il veltro era propriamente un cane usato durante le battute di caccia, dunque perfettamente in grado di mettersi sulle tracce di un animale selvaggio: cfr. Inf., XIII, 126, come veltri ch'uscisser di catena). Su di lui sono state avanzate le più disparate ipotesi, che però, tralasciando le più fantasiose, si riducono a un papa (forse un francescano: il feltro potrebbe alludere al panno del suo saio), a un imperatore (Arrigo VII di Lussemburgo?), a un signore italiano (Cangrande della Scala?). La questione è complicata anche dall'incerta cronologia della composizione di questo Canto, per cui si obietta che se Dante scrisse questi versi intorno al 1307 (è questa l'ipotesi più accreditata, mentre altri pensano addirittura che abbia iniziato la Commedia prima dell'esilio) era in effetti troppo presto perché potesse pensare ad Arrigo VII, che scese in Italia solo nel 1310-1313, ma anche a Cangrande, che all'epoca aveva appena sedici anni e che il poeta incontrò molto più tardi. Del resto è innegabile che l'elogio a Cangrande messo in bocca all'avo Cacciaguida in Par.,XVII, 76 ss. presenti molti punti di contatto con questa profezia e fa propendere per tale identificazione, ma occorrerebbe pensare che Dante abbia rimaneggiato il Canto in un secondo momento e di questo non c'è alcuna conferma diretta nella tradizione manoscritta. Non è poi da escludere che il veltro non fosse da identificare con un personaggio in particolare e che la profezia sia volutamente ambigua proprio per essere indeterminata, caso non certo unico nel poema dantesco; chiunque fosse il veltro, Dante si aspettava da lui un profondo rinnovamento sociale e politico in grado di riportare la giustizia troppo spesso calpestata dagli ecclesiastici corrotti e dagli uomini politici, che è poi la situazione di degrado morale e disonestà che il poeta denuncia a più riprese nella Commedia, sempre con parole di ferma condanna. Tale profezia si ricollega forse a quella del «DXV» contenuta nel Canto XXXIII del Purgatorio, dove si dice che un «messo di Dio» ucciderà la prostituta che simboleggia la Chiesa compromessa con la monarchia di Francia: molti interpreti hanno sostenuto l'identificazione di questo «DXV» con Arrigo VII e con lo stesso veltro, per quanto di ciò non vi sia alcuna prova certa, ma è evidente che entrambe le profezie hanno in comune il carattere oscuro ed enigmatico e preannunciano quella palingenesi della società che Dante si attendeva, e nella quale manifesta una fede incrollabile in più di un passo del poema.
Il v. 1 è stato interpretato da alcuni come in quella metà della vita
che si trascorre domendo (Dante racconterebbe una visione avuta in sogno), ma l'autore si rifà quasi certamente a un passo
biblico (Isaia, 38, 10) dove si
dice in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi, cioè «andrò presso la porta dell'Inferno a metà dei miei giorni». Dante stesso, in Conv., IV, 23 descrive la vita umana come un arco che inizia a declinare dopo i 35 anni di età, senza contare che
descrive il suo viaggio come realmente avvenuto (egli è andato sensibilimentenell'Aldilà). In Ps., LXXXIX, 10 si legge inoltre
che dies annorum nostrorum... septuaginta anni («la vita dell'uomo dura settant'anni»), per cui è evidente che Dante intende collocare il suo viaggio nella primavera dell'anno 1300.
Al v. 5 selva selvaggia è una paronomasia di
forte sapore guittoniano.
Il sonno citato al v. 11 è quello della
ragione che conduce al peccato, come spesso indicato nelle Scritture.
Il pianeta del v. 17 è ovviamente
il Sole.
Nel v. 27 il che può avere valore di
soggetto o di compl. oggetto, quindi il senso può essere la selva, che non lasciò vivere
nessuno oppure la selva, che nessuna
persona vivente poté abbandonare. Pare più probabile la prima interpretazione, nel senso che il peccato provoca la morte dell'anima
portando alla dannazione.
Il v. 30 è stato variamente interpretato, ma forse Dante indica semplicemente che, tentando di scalare il colle, il piede più basso è quello più saldo e quindi l'ascesa è alquanto incerta. Altri
pensano che il piede più basso sia il sinistro, simbolo degli appetiti materiali che frenano Dante sulla strada della salvezza (le due ipotesi non si escludono a vicenda).
I vv. 37-40 indicano che è l'alba e il Sole è in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quella che era con lui al momento della Creazione fissata tradizionalmente in primavera:
l'equinozio primaverile era considerato momento favorevole, quindi anche per questa ragione Dante si riconforta (l'indicazione permette inoltre di collocare il tempo dell'azione tra marzo e
aprile del 1300, come successivamente verrà meglio precisato).
Le rime ai vv. 44, 46, 48 (-esse / -isse) sono siciliane ed è
dunque da respingere la lezione venesse di alcuni mss.
La similitudine ai vv. 55-57 è di solito riferita all'avaro, ma alcuni hanno pensato al giocatore, che si rattrista quando perde tutti i suoi guadagni.
Il v. 63 (chi per lungo silenzio parea fioco) può significare qualcuno, che a causa del lungo silenzio della
luce (penombra) si scorgeva a
malapena, oppure qualcuno, che a causa di un
lungo silenzio (poetico) non aveva più voce. Questa seconda ipotesi alluderebbe al fatto che, dopo Virgilio, nessuno scrisse
un poema paragonabile all'Eneide, quindi il poeta latino aveva
perso autorevolezza. Le due interpretazioni possono coesistere.
Ai vv. 68-69 Virgilio si presenta come originario di Mantova (era nativo di Andes, un
piccolo villaggio vicino alla città sul Mincio) e indica i genitori come lombardi, con un anacronismo in quanto il termine Lombardia (che ai tempi di Dante alludeva a tutta l'italia settentrionale) non esisteva ai tempi dell'antica Roma.
I vv. 73-75 alludono in modo perifrastico ad Enea, figlio di Anchise e protagonista
dell'Eneide. Ilion è l'altro nome di
Troia.
Noia e gioia (vv. 76, 78) derivano
dal provenzale e hanno significato assai più ampio che nella lingua moderna: il primo indica la piena e perfetta felicità, il secondo l'angoscia e la pena del peccato.
Al v. 84 il volume è sicuramente
l'Eneide. Lo bello stilo che ha fatto onore a
Dante è lo stile alto e tragico di quel poema, che Dante ha già usato nelle canzoni dottrinali composte in precedenza e destinate ad essere commentate nel Convivio.
Gli animali (v. 100) cui è detta
accoppiarsi la lupa-avarizia sono gli uomini e non i vizi, come fu inteso da alcuni.
Il peltro (v. 103) era una lega di
piombo e stagno usata per forgiare le monete, quindi Virgilio dice che il veltro non sarà avido né di terre né di ricchezze.
Sapienza, amore e virtute (v. 104) indicano le tre Persone della Trinità, ovvero Figlio, Spirito Santo e
Padre.
Il v. 105 (e sua nazion sarà tra feltro e feltro),
riferito al veltro, è stato variamente interpretato: può riferirsi al feltro delle bandiere (la sua origine non sarà da una città in particolare), al feltro che foderava l'interno delle urne
dov'erano votati i magistrati comunali (un podestà?), al panno del saio francescano (un papa di quell'Ordine?), a Feltre e Montefeltro (Cangrande della Scala, il cui territorio era compreso fra
quelle città).
Ai vv. 107-108 Virgilio ricorda alcuni personaggi dell'Eneide: Camilla, la regina dei Volsci alleata di Turno e uccisa dall'etrusco Arunte (XI, 758
ss.); Eurialo e Niso, i due giovani guerrieri troiani uccisi dai Latini mentre cercano
di portare un messaggio ad Enea (IX, 177 ss.); lo stesso Turno re dei Rutuli, principale nemico di Enea e da lui ucciso nel finale del poema (XII, 936 ss.). Tutti sono ricordati come valorosi
soldati caduti per il bene dell'Italia e, curiosamente, Turno viene citato tra i due amici Eurialo e Niso, mentre è interessante notare che due di loro sono troiani, gli altri due nemici di Enea
(evidentemente tutti hanno partecipato alla costruzione della «nazione» italica, anche se schierati su fronti opposti).
Nel v. 117 il verbo grida può avere il senso
di invoca, oppure
di impreca contro: nel primo caso, più
probabile, significa che ogni dannato invoca la seconda morte, il definitivo annichilimento dell'anima; nel secondo, vuol dire che ogni dannato impreca contro la seconda morte, intesa come la
dannazione.
Il v. 127 crea un'analogia tra Dio e l'Imperatore sulla Terra, che impera (cioè estende la sua autorità) in ogni luogo ma regge (governa)propriamente solo nel proprio territorio: Dio ha autorità su tutto l'Universo e governa solo nell'Empireo.
La porta di san Pietro (v. 134) è stata
intesa come la porta del Paradiso, ma secondo altri è quella del Purgatorio descritta in Purg., IX e presidiata dall'angelo guardiano che è detto vicario di Pietro.