INFERNO CANTO III
Testo
"Per me si va ne la città dolente,
E io: «Maestro, che è tanto greve
similemente il mal seme d’Adamo
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Parafrasi
"Attraverso me si entra nella città del dolore,
attraverso me si va nel dolore eterno, attraverso me si va tra le anime perdute (dannati).
insieme ad esse creavano un frastuono, che rimbomba
di continuo in quell'aria eternamente oscura, proprio come la sabbia quando soffia la tempesta.
I cieli li cacciano per non perdere la loro bellezza,
né l'Inferno li accoglie nelle sue profondità, poiché i dannati (rei) potrebbero ricevere alcuna gloria dalla loro presenza».
E io: «Maestro, che cosa è tanto fastidioso per loro, da farli lamentare così forte?» Mi rispose: «Te lo dirò molto brevemente.
allo stesso modo la cattiva discendenza di Adamo (i dannati) si getta da quella riva ad una ad una, rispondendo ai cenni di Caronte, come un uccello risponde al richiamo.
Alla fine di ciò, quei luoghi oscuri tremarono così
forte che, dalla paura, il solo ricordo mi bagna di sudore.
e caddi come l'uomo preso da sonno (svenni).
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Michelangelo, particolare del Giudizio Universale
"...Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."
Così sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera
s'auna...
Dante e Virgilio giungono
alla porta dell'Inferno. Ingresso nell'Antinferno, dove incontrano gli ignavi (tra loro Celestino
V). Incontro conCaronte, taghettatore dei dannati sul
fiume Acheronte. Terremoto e svenimento di Dante.
È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.
Dante e Virgilio giungono di fronte alla porta dell'Inferno, su cui campeggia una scritta di colore scuro. Essa mette in guardia chi sta per entrare, ammonendo che tale porta durerà in eterno e che una volta varcata non c'è speranza di tornare indietro. Dante non ne afferra subito il senso e Virgilio lo ammonisce a sua volta a non aver paura e a prepararsi all'ingresso nell'Inferno, tra le anime dannate. Quindi il poeta latino prende amorevolmente Dante per mano e lo conduce attraverso la porta.
Ritratto di Celestino V
Una volta varcata la soglia, Dante sente un orribile miscuglio di urla, parole d'ira, strane lingue che lo spingono a piangere in quel luogo buio e
oscuro. Dante chiede a Virgilio chi emetta quegli orribili suoni e il maestro spiega che sono gli ignavi, le anime di coloro che non si schierarono né dalla parte del bene né da quella del male e
che ora risiedono nel Vestibolo dell'Inferno. Sono
mescolate agli angeli che non si schierarono né con Dio né con Lucifero; le anime degli ignavi sono
tanto misere che secondo Virgilio non sono degne di essere guardate da Dante troppo a lungo.
Dante vede che le anime corrono dietro un'insegna senza significato, che gira vorticosamente su se stessa. Formano una schiera infinita e tra esse Dante crede di riconoscere
papa Celestino
V, che per viltà rinunciò al soglio pontificio. Il poeta è sicuro che questi siano proprio gli ignavi, che
spiacquero tanto a Dio quanto ai suoi nemici: essi sono punti e tormentati da vespe e mosconi, che gli fanno colare il sangue dal volto, il quale cade a terra mischiato alle loro lacrime e viene
raccolto da vermi ripugnanti.
G. Doré, Il nocchiero Caronte
Poco dopo i due poeti giungono nei pressi di un grande fiume (l'Acheronte),
sulla cui sponda sono accalcate le anime dannate. Dante è ansioso di sapere da Virgilio chi siano quelle anime e cosa le renda in apparenza pronte a varcare il fiume, ma il maestro risponde che
avrà tutte le risposte quando raggiungeranno l'Acheronte. Dante prosegue senza aggiungere altro e poco dopo vede giungereCaronte, il traghettatore dei dannati, che rema verso di loro a bordo di una barca: è un
vecchio dalla barba bianca, che grida minaccioso alle anime di essere venuto a prenderle per portarle all'Inferno, tra le pene eterne.
Caronte si rivolge poi a Dante e lo invita ad andarsere, essendo ancora vivo; aggiunge anche che Dante dopo la morte non andrà lì, bensì in Purgatorio. Il demone è zittito da Virgilio, che
gli ricorda che il viaggio di Dante è voluto da Dio e lui non può opporsi. A quel punto il nocchiero, che ha gli occhi circondati di fiamme, tace, mentre le anime tremano di terrore e bestemmiano
Dio, i loro genitori, il momento della loro nascita.
G. Doré, Caronte e i dannati
I dannati si accalcano lungo la sponda e Caronte fa loro cenno di salire sulla sua barca: stipa le anime dentro di essa e batte col suo remo qualunque
anima tenti di adagiarsi sul fondo. I dannati si gettano dalla riva alla barca proprio come le foglie cadono dagli alberi in autunno. Caronte le porta dall'altra parte del fiume e, prima che
siano scese, sulla sponda opposta si è formata un'altra schiera.
Virgilio spiega a Dante che tutti i dannati finiscono sulle sponde dell'Acheronte e qui la giustizia divina li spinge a desiderare ardentemente di passare dall'altra parte. Perciò non c'è da
stupirsi se Caronte protesta per la presenza di Dante in quel luogo, dal momento che il poeta è destinato ad essere salvo.
Alla fine delle parole di Virgilio, il suolo infernale è scosso da un tremendo terremoto, così spaventoso che Dante ne ha paura al solo ricordo. Si vede una luce rossastra, la quale fa perdere i sensi a Dante; il poeta cade svenuto a terra.
Gli ignavi (min. ferrarese, XV sec.)
Il canto si apre con la famosa descrizione della porta infernale: non viene detto dove essa precisamente si collochi, qui viene citata soltanto la
scritta che campeggia su di essa, di colore oscuro (forse anche quanto al senso, visto che Dante deve chiedere spiegazioni a Virgilio). L'ingresso nell'Inferno ha un effetto traumatico per Dante, colpito da sensazioni
visive (l'oscurità fitta) e uditive (le disperate grida dei dannati) che lo fanno angosciare e provocano in lui il pianto, come altre volte avverrà nella Cantica.
Il Vestibolo (o Antinferno) è il primo luogo dell'Oltretomba a essere visitato. Esso è abitato dagli
ignavi, non propriamente dannati ma in ogni caso condannati a una pena molto severa, in cui è visibile un contrappasso: l'insegna che essi devono inseguire è senza significato, come priva di
scopo è stata la loro vita terrena (infatti Dante li definisce sciaurati, che mai non fur
vivi). Tra essi è citato, indirettamente, papa Celestino V, colui / che fece per viltade il gran rifiuto: Dante gli rimproverava di aver ceduto la tiara
a Bonifacio
VIII, suo acerrimo nemico e artefice del suo esilio in seguito alla vittoria dei Neri
a Firenze. L'identificazione pare certa, anche se non sono mancati commentatori che hanno
visto in lui altri personaggi, come Esaù, Pilato, Giuliano l'Apostata. Insieme a loro vi sono anche gli angeli che, al momento della ribellione di Lucifero contro Dio, non si schierarono né da
una parte né dall'altra, restando neutrali; la presenza di questi personaggi nell'Antinferno è motivata da Virgilio col fatto che i dannati potrebbero attribuirsi dei meriti rispetto a loro, il
che spiega anche il disprezzo mostrato dal maestro e il suo invito a Dante affinché non si soffermi troppo sulla loro pena.
Il vero protagonista dell'episodio è poi Caronte, il traghettatore delle anime dannate che Dante descrive traendo spunto dal personaggio virgiliano del libro VI
dell'Eneide: rispetto al Caronte
classico, tuttavia, quello dantesco appare con tratti decisamente demoniaci (soprattutto gli occhi circondati di fiamme) e ciò è coerente con la interpretazione in chiave cristiana delle figure
mitologiche, in quanto le divinità infere venivano spesso considerate personificazione del diavolo e lo stesso farà Dante con altre creature infernali, come ad
esempio Minosse,Cerbero, Pluto. La reazione del demone all'apparire di Dante è analoga a quella degli altri
guardiani infernali che il poeta incontrerà più avanti, in quanto anche Caronte tenta di spaventarlo e di impedire il suo viaggio attraverso l'Inferno: queste figure simboleggiano
gliimpedimenta di natura peccaminosa
che ostacolano il cammino di redenzione dell'anima umana, non a caso infatti è sempre Virgilio (allegoria della ragione) a zittirli e a consentire il passaggio di Dante. Significativo è il fatto
che qui Caronte predica a Dante la sua salvezza, dicendogli che approderà ad altri porti e che sarà portato da una barca più lieve della sua, ovvero quella dell'angelo
nocchiero del Purgatorio; Virgilio lo riduce al silenzio con una formula (vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare) che userà, con lievi
varianti, anche con Minosse e con Pluto.
I dannati sono descritti nella loro fisicità, come corpi nudi e prostrati, che si assiepano sulla riva dell'Acheronte ansiosi di passare dall'altra parte (Virgilio spiega a Dante che è la
giustizia divina a spronarli in tal senso). I dannati bestemmiano e maledicono il giorno in cui sono nati, secondo i modelli biblici di Giobbe e di Geremia; hanno un aspetto corporeo, in quanto
le pene che dovranno subire provocheranno in loro un dolore fisico. Il loro gran numero, come del resto quello degli ignavi, lascia intendere la diffusione del male e del peccato sulla Terra,
come appare chiaro dal fatto che Caronte cerchi di stiparne il più possibile sulla sua barca (colpendo col remo chiunque tenti di adagiarsi sul fondo, per occupare meno spazio) e dal particolare
che, prima che il traghettatore sia giunto sull'altra sponda, su quella opposta si è già formata una schiera altrettanto folta. Alquanto enigmatica, infine, la chiusa dell'episodio col terremoto
la cui causa non è chiarita da Dante, e che sembra avere l'unica funzione di espediente narrativo per descrivere lo svenimento del poeta e farlo poi risvegliare al di là del fiume infernale
(qualcosa di molto simile avverrà anche alla fine del Canto V, dopo l'episodio
di Paolo e Francesca).
Il Canto si chiude con una violenta scossa di terremoto, causato da un vento sotterraneo come riteneva la fisica medievale; insieme a una luce rossastra,
la cui origine è sconosciuta, provoca lo svenimento di Dante che si risveglierà all'inizio del Canto seguente dall'altra parte dell'Acheronte, nel Limbo. Dante ricorre qui a un
espediente narrativo per non dover descrivere il passaggio del fiume, cosa che accadrà anche alla fine del Canto
V (Dante sverrà sopraffatto dall'angoscia di Paolo e
Francesca).
A un terremoto allude forse anche la ruina che sarà descritta nel Canto V, di fronte alla quale i lussuriosi bestemmiano la virtù divina (potrebbe essere stata prodotta dal terremoto che investì tutta la Terra il
giorno della morte di Cristo). Allo stesso evento si riferisce invece in modo esplicito il diavolo Malacoda nel Canto XXI, 112-114, quando spiega ai
due poeti che il ponte di roccia che permette il passaggio dalla V alla VI Bolgia è crollato in seguito al terremoto: le sue parole permettono di datare con precisione il viaggio dantesco,
essendo trascorsi 1266 anni dalla morte di Cristo (quindi siamo nell'anno 1300, il giorno del sabato santo).
Di natura ben diversa il terremoto che investe il Purgatorio al momento in cui l'anima di un penitente completa la sua espiazione e può finalmente ascendere all'Eden. È quanto avviene alla fine
del Canto XX, quando il
poeta Stazio termina la sua pena e spiega in seguito a Dante
(Canto XXI) e a Virgilio che al di sopra della porta del Purgatorio non possono verificarsi
normali eventi «sismici», se non per espressa volontà divina.
La scritta sulla porta dell'Inferno (vv. 1-9) indica che è la porta stessa a parlare, secondo l'uso attestato nell'antichità di porre iscrizioni di
questo tipo su vasi e altri manufatti (l'oggetto, parlando in prima persona, indicava l'artigiano che l'aveva prodotto). Qui ovviamente il creatore della porta è Dio, indicato con le Persone
della Trinità (la divina podestate, il Padre;
la somma sapienza, il Figlio;
il primo amore, lo Spirito Santo).
Al v. 29 sanza tempo tinta significa «eternamente
oscura».
Il v. 31 presenta la doppia lezione error / orror, con
diverso significato. La lezione scelta da Petrocchi è la prima, perché più difficile e perché esprime il dubbio poi chiarito da Virgilio.
Il v. 42 (ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli) indica che i dannati potrebbero vantarsi nei confronti degli ignavi, in quanto questi ultimi non hanno commesso alcun vero peccato.
I vv. 59-60 indicano quasi certamente l'anima di Celestino V, anche se non sono mancate altre interpretazioni (Esaù, Pilato, Giuliano
l'Apostata...). Il gran rifiuto allude alla rinuncia
alla dignità papale, avvenuta il 13 dic. 1294 e in seguito alla quale venne eletto Bonifacio VIII, il papa che coi suoi maneggi politici causò indirettamente l'esilio di Dante.
Il lieve legno citato da Caronte (v.
93) è il vasello snelletto e leggero con cui l'angelo
nocchiero trasporta le anime dei penitenti dalla foce del Tevere sino alla spiaggia del Purgatorio (cfr. Purg., II, 13 ss.). Il demone predice
dunque a Dante la futura salvezza.
I vv. 95-96 (vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare) costituiscono una formula fissa, che si ripeterà identica con Minosse (V,
23-24) e lievemente variata con Plutone (VII, 11-12).
Al v. 116 gittansi, plurale, è concordato a
senso col singolare collettivo il mal seme d'Adamo (v. 115).
Nel v. 134 il che può essere soggetto
di vento, quindi è il vento
sotterraneo che produce la luce rossastra. Altri interpretano ché, con valore causale.