INFERNO, CANTO IV
Testo
Ruppemi l’alto sonno ne la testa
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Parafrasi
Un forte tuono interruppe il sonno nella mia testa, così che io mi scossi come qualcuno che
si sveglia di soprassalto;
E giungo in una parte dove non c'è nulla che sia illuminato.
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G. Stradano, Il Limbo (1587)
"Or discendiam qua giù nel cieco mondo,"
cominciò il poeta tutto smorto.
Io sarò primo e tu sarai secondo"...
Intanto voce fu per me udita:
"Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita"...
Venimmo al piè d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel
fiumicello...
Ingresso nel Limbo. Descrizione delle anime e salvezza dei patriarchi biblici. Incontro con Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Il castello degli «spiriti magni».
È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.
Un forte tuono risveglia Dante dal suo sonno, per cui il poeta si rialza e si guarda intorno. Comprende di essere al di là dell'Acheronte, nel primo dei nove Cerchi in cui è diviso l'Inferno, il cui fondo è così oscuro che non riesce a vedervi nulla. Virgilio invita Dante a seguirlo, ma con un pallore che allarma Dante, il quale infatti ne chiede il motivo. Virgilio risponde che la sua angoscia è dovuta alla presenza in quel luogo di anime che lui ben conosce, essendo lui stesso uno spirito relegato nel Limbo. Dopo aver ricordato a Dante che la strada da percorrere è lunga, lo conduce all'interno del Cerchio.
G. Doré, Il Limbo
Appena entrato nel Cerchio, Dante sente trarre sospiri da ogni parte, emessi dalle molte anime presenti che non subiscono alcuna pena. Virgilio spiega al
discepolo che queste anime non commisero alcun peccato, ma non ricevettero il battesimo, il che li esclude per sempre dalla salvezza. Tra di essi vi sono anche i pagani che vissero virtuosamente
ma non adorarono il Dio cristiano, compreso Virgilio stesso; la loro unica pena consiste del desiderio inappagato di vedere Dio. Dante comprende che nel Limbo sono «sospese» anime di grandissimo
valore e virtuose.
Dante chiede poi a Virgilio se mai qualcuna di queste anime sia uscita dal Limbo, per merito suo o di altri. Virgilio risponde che poco tempo dopo il suo arrivo vide entrare Cristo trionfante
(dopo la Risurrezione), che trasse fuori dal Limbo i patriarchi biblici per portarli in Paradiso: tra
essi Adamo,
Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Giacobbe e i suoi figli, Isacco, Rachele. Prima di loro, conclude Virgilio, nessuno si era mai
salvato.
G. Doré, I poeti del Limbo
Mentre parlano, i due poeti proseguono e si avvicinano a un punto del Limbo in cui Dante vede una luce, tanto vivida da formare un semicerchio luminoso.
Dante si avvede subito che il luogo è abitato da anime particolarmente virtuose: chiede spiegazioni a Virgilio, il quale risponde che lì risiedono spiriti che hanno ottenuto una tale fama in vita
da meritare un grado di distinzione nell'Aldilà. Si sente poi una voce, che invita a rendere onore a Virgilio che ritorna nel Limbo: Dante vede quattro imponenti anime farsi avanti, che non
sembrano tristi né liete. Virgilio li presenta come Omero, che regge in mano una spada ed è come il re degli
altri; Orazio,
autore delle Satire; Ovidio, autore delle Metamorfosi eLucano, autore del Bellum civile.
I quattro si trattengono un poco a parlare con Virgilio, poi si rivolgono amichevolemente a Dante; Virgilio sorride di ciò, come del fatto che Dante viene ammesso nel loro gruppo ed
è sesto tra cotanto senno.
I sei si avvicinano poi al punto luminoso, dove sorge un nobile castello che è circondato da sette ordini di mura ed è cinto da un fiume. Lo superano
come se fosse terra solida, attraversano sette porte ed entrano in un verde prato, dove risiedono spiriti dall'aspetto autorevole e dallo sguardo fiero (gli «spiriti magni»). Il
gruppo si mette in disparte, in un punto alto da dove possano vedere tutti i presenti: Dante scorge Elettra, Ettore, Enea, Cesare, Camilla, Pentesilea, il re Latino, Lavinia, Lucio Bruto, Lucrezia, Giulia
(figlia di Cesare), Marzia (moglie diCatone
Uticense), Cornelia (madre dei Gracchi), il Saladino. Dante vede anche un gruppo di filosofi, tra cui Aristotele,
Socrate, Platone, Democrito, Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone, Dioscoride. Vede anche dei poeti, tra cui Orfeo e Lino, nonché scrittori come Cicerone e Seneca, poi
Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Galeno, Averroè.
Dante non può nominarli tutti, quindi interrompe l'elenco; lui e Virgilio si separano dagli altri quattro poeti, scendendo nel II Cerchio dove l'aria è tempestosa e buia.
Il Canto descrive il Limbo, il I Cerchio dell'Inferno dove sono relegate le anime di coloro che vissero virtuosamente, ma non furono battezzati (come i
bambini morti in tenera età) oppure vissero prima di Cristo (come i pagani, fra cui Virgilio stesso). Questi spiriti non sono dannati, la loro unica pena consiste in un desiderio eternamente
inappagato di vedere Dio e non potranno mai salvarsi. Il nome Limbo significa «lembo» e indica l'orlo estremo della voragine infernale.
Protagonista nella prima parte del Canto è ovviamente Virgilio, che impallidisce al suo ritorno nel luogo infernale cui appartiene e suscita i timori di Dante, che è appena all'inizio del suo
difficile viaggio nell'Oltretomba: il maestro spiega le ragioni della sua angoscia, dovuta al dramma spirituale vissuto da lui e da tutte le anime confinate nel Limbo, escluse dalla salvezza non
perché abbiano commesso peccati, ma solo in quanto non hanno conosciuto la fede cristiana. Dante tocca qui il delicato tema dell'apparente ingiustizia della condizione di queste anime, fra le
quali egli comprende subito che sono inclusi personaggi di altissimo riguardo e che sono esclusi dalla salvezza perché nati prima della venuta di Cristo (è il caso di Virgilio, ma anche dei
principali filsofi e personaggi pagani mostrati più avanti) o vissuti in terre lontane dall'Occidente in cui è avvenuta storicamente la predicazione cristiana, senza contare il caso dei bambini
morti prima di ricevere il battesimo (e infatti il pianto degli infanti è una sensazione uditiva che colpisce subito l'orecchio di Dante). Il poeta tornerà a più riprese su questo argomento che suscitava i dubbi suoi e di altri pensatori
cristiani nel Medioevo, a cominciare dal Canto
III del Purgatorio in cui proprio Virgilio spiegherà a Dante che la giustizia divina fa sì che i corpi umbratili
delle anime possano subire pene fisiche e che questo mistero divino è incomprensibile alla ragione umana, come quello della Trinità (invano i filosofi antichi tentarono di dare risposta a simili
questioni, così come ora essi desiderano invano conoscere Dio, destino che accomuna Aristotele, Platone e altri tra cui forse lo stesso poeta latino). In seguito, nei
Canti XIX-XX del Paradiso, l'aquila del Cielo di Giove tornerà a spiegare a Dante che la salvezza è legata alla fede
in Cristo venturo o venuto e che l'esclusione da essa per quelle persone vissute ai limiti estremi del mondo può sembrare ingiusta, ma è motivata dall'imperscrutabile volontà divina che la
ragione umana non deve avere la presunzione di comprendere, in quanto la sua profondità è insondabile. L'unica eccezione rispetto al destino delle anime vissute nell'antichità è rappresentata dai
patriarchi biblici che, secondo la testimonianza di Virgilio, soggiornarono nel Limbo fino alla morte e resurrezione di Cristo, che venne poi trionfante nell'Inferno a trarli fuori e portarli in
Paradiso. Tra queste anime c'era anche Catone l'Uticense, divenuto poi custode del Purgatorio (cfr. Purg., I, 28 ss.), nonché altre figure da Dante incluse nella rosa dei beati dell'Empireo.
L'episodio serve a Dante anche per aprire un discorso intorno alla poesia, infatti i protagonisti del Canto sono quattro fra i principali poeti classici secondo il pensiero medievale: anzitutto
Omero, autore di Iliade e Odissea e presentato come il più
autorevole del gruppo, quindi Orazio, Ovidio, Lucano. Va detto che Dante non conosceva il testo omerico direttamente, ma attraverso traduzioni e rimaneggiamenti tardi (l'episodio
di Ulisse del Canto
XXVI, ad esempio, è estraneo ai poemi classici); più diretta la sua conoscenza degli altri tre, soprattutto di
Ovidio e Lucano di cui conosceva Metamorfosi e Bellum civile, entrambi fonte di
innumerevoli immagini mitologiche. Il pensiero medievale aveva sottoposto specialmente Ovidio a un intenso lavoro di reinterpretazione in chiave cristiana, il che vale naturalmente anche per lo
stesso Virgilio e per la letteratura classica in generale, per cui non c'è da stupirsi se Dante accorda la sua preferenza a questi autori che costituivano il «canone» del Medioevo latino ed erano
presi a modello dagli scrittori di poesia; tra essi vi era una sorta di gradazione di importanza, per cui si può ipotizzare che l'ordine in cui li cita Dante rispetti tale gerarchia e consideri
Virgilio e Omero come i modelli più autorevoli, non solo in quanto maestri di letteratura ma anche di filosofia e sapere, il che vale in particolare per il poeta latino. Dante stesso gareggia
proprio con Ovidio e Lucano in Inf., XXV, 94-102, allorché descrive le mostruose trasformazioni
dei ladri nella VII Bolgia e manifesta con un certo orgoglio la propria abilità che gli consente, a suo dire, di superare di gran lunga il loro esempio e il loro magistero. Già in
questo Canto, del resto, il poeta moderno viene accolto nella compagnia di quelli antichi e si vanta di essere sesto tra cotanto senno, ammesso alla discussione di profondi argomenti che, in virtù di una sorta di reticenza, non esplicita al lettore.
Nella seconda parte viene descritto il castello degli «spiriti magni», ovvero i pagani virtuosi che si sono distinti per meriti letterari, militari, scientifici o morali, e che pur non essendo
salvi godono di un maggior grado di considerazione rispetto alle altre anime. Tra questi Dante cita personaggi del mito classico, sia del ciclo troiano sia di quello latino e personaggi
dell'antica storia romana, come il Bruto che cacciò Tarquinio il Superbo, Lucrezia moglie di Collatino che si suicidò per la violenza subita da Sesto Tarquinio, la figlia di Giulio Cesare, la
moglie di Catone Uticense. Cita anche personaggi musulmani, come il Saladino e i filosofi Avicenna e Averroè, nonché quasi tutti i filosofi greci, tra i quali Aristotele è
definito maestro di color che sanno. Il luogo in cui essi
risiedono è un nobile castello che li tiene separati dal resto delle anime del Limbo, in ragione dell'eccellenza che essi raggiunsero durante la vita terrena, e che rappresenta l'unico punto
luminoso nella tenebrosa oscurità del I Cerchio; all'interno vi è un giardino la cui descrizione ricorda molto quella classica del locus amoenus, nonché la raffigurazione dei Campi Elisi dove Enea, nel libro VI
dell'Eneide, incontra l'ombra del
padre Anchise (l'eroe troiano figura tra gli
spiriti indicati da Dante, mentre curiosamente assente è il padre che non viene mai presentato direttamente nel poema). L'episodio ha anche una certa attinenza con quello
della valletta dei principi
negligenti (Purg., VII-VIII), in
cui sarà il poeta Sordello a indicare a Dante e Virgilio alcune anime particolarmente eminenti, in modo
a simile a quanto Anchise fa col figlio Enea nel poema virgiliano mostrandogli i futuri eroi dell'antica Roma.
Papa Benedetto XVI (2007)
Uno degli aspetti più problematici inerenti le anime confinate nel Limbo riguarda i bambini morti prima di essere battezzati, che pur essendo innocenti e
non avendo commesso alcuna colpa sono irrimediabilmente esclusi dalla salvezza: il punto doveva colpire non poco i teologi medievali, che infatti se ne occupano in più di uno scritto, ed anche lo
stesso Dante vi accenna ripetutamente nella sua descrizione del I Cerchio da cui proviene la sua guida nella prima parte del viaggio, il poeta latino Virgilio.
In Inf., IV, 29-30 egli sottolinea
che nel Limbo si sentono dei profondi sospiri emessi dalle anime lì relegate, turbe, ch'eran molte e grandi, / d'infanti e di femmine
e di viri, mentre in Purg., VII, 31-33 è Virgilio a spiegare al concittadino Sordello che nel I Cerchio ci
sono anche i pargoli innocenti / dai denti morsi de la morte avante / che fosser de l'umana colpa
esenti, parole in cui è evidente l'apparente ingiustizia che la volontà divina sembra riservare a questa categoria
di anime. Va aggiunto che l'aquila degli spiriti
giusti, nel suo discorso sulla predestinazione e sulla salvezza nei Canti XIX-XXdel Paradiso, risponde al dubbio di Dante sull'argomento (che lui stesso dichiara che lo ha tormentato a lungo)
riconducendo tutto all'imperscrutabile giudizio divino, per cui ciò che può sembrare un'apparente ingiustizia trova la sua spiegazione nell'abisso della saggezza di Dio, che però è inconoscibile
al limitato intelletto umano. Il tema è delicato, in quanto l'esistenza del Limbo era ammessa dalla dottrina cristiana ma non trovava giustificazione in nessun punto delle Scritture, senza
contare che il battesimo non era sempre condizione indispensabile per essere ammessi alla grazia: oltre all'eccezione rappresentata dai patriarchi biblici, rimasti nel Limbo fino alla
Resurrezione di Cristo e poi portati da Lui in Paradiso, la dottrina riconosceva il caso di quei pagani che per meriti eccezionali e in virtù di un alto privilegio erano stati salvati, di cui vi
sono vari esempi anche nel poema dantesco (i più clamorosi sono quelli di Catone Uticense, Rifeo e Traiano). Recentemente la Chiesa
Cattolica è tornata sulla questione dei bambini morti senza battesimo e ha cautamente ipotizzato che per essi vi possa essere una speranza di salvezza, rimuovendo dunque il carattere di
perentorietà circa la loro perdizione che era posta dalla teologia medievale: nel 2007 la Commissione Teologica Internazionale ha infatti redatto un documento, approvato dal pontefice Benedetto
XVI, in cui si afferma che il battesimo è condizione necessaria per essere ammessi alla grazia, ma che è lecito sperare che Dio possa salvare i bambini morti senza aver ricevuto il sacramento
(dunque l'esistenza del Limbo non viene negata e, anzi, esso viene ritenuta un'«ipotesi teologica possibile», ma viene di molto attenutata la sua importanza sul piano della salvezza individuale).
Ecco come si esprime la Chiesa nel citato documento:
«La conclusione dello studio è che vi sono ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che i bambini morti senza Battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine
eterna, sebbene su questo problema non ci sia un insegnamento esplicito della Rivelazione. Nessuna delle considerazioni che il testo propone per motivare un nuovo approccio alla questione, può
essere addotta per negare la necessità del Battesimo né per ritardare il rito della sua amministrazione. Piuttosto vi sono ragioni per sperare che Dio salverà questi bambini, poiché non si è
potuto fare ciò che si sarebbe desiderato fare per loro, cioè battezzarli nella fede della Chiesa e inserirli visibilmente nel Corpo di Cristo... Gli adulti, essendo stati dotati di ragione,
coscienza e libertà, sono responsabili del proprio destino, nella misura in cui accolgono o respingono la grazia di Dio. I bambini tuttavia, non avendo ancora l’uso della ragione, della coscienza
e della libertà, non possono decidere per se stessi... Da un punto di vista teologico, lo sviluppo di una teologia della speranza e di una ecclesiologia della comunione, insieme al riconoscimento
della grandezza della misericordia divina, mettono in discussione un’interpretazione eccessivamente restrittiva della salvezza» (testo approvato il 19 genn. 2007 e pubblicato sul sito
ufficiale del Vaticano).
Tale posizione della Chiesa non fa che risolvere, almeno in parte, i dubbi teologici che già Dante e i pensatori del suo tempo avevano avanzato sulla questione, e pur non dichiarando
espressamente che questi bambini saranno salvi, tuttavia riconduce ancora tutto alla volontà di Dio, mettendo maggiormente l'accento sulla Sua misericordia piuttosto che sul carattere implacabile
della Sua giustizia. Non sappiamo cosa avrebbe pensato Dante se avesse potuto leggere queste considerazioni, ma è lecito affermare che il documento citato resta nel solco della dottrina e non ne
mette in discussione i principi fondamentali (caso mai, li interpreta in maniera meno restrittiva), per cui l'attuale posizione della Chiesa non è certo in contrasto con quella espressa da Dante
il quale, non dimentichiamolo, si rifaceva anch'egli strettamente alle affermazioni dei teologi a lui coevi. (Foto: © F. Pozzebom / Wikimedia Commons)
Non è chiaro cosa sia il truono che risveglia Dante all'inizio del Canto (vv. 1-3): probabilmente si tratta di un evento prodigioso, come il terremoto e la luce rossastra che ne hanno provocato lo
svenimento alla fine del Canto
III.
Il v. 30 riecheggia Aen., VI,
306-307: matres atque viri... pueri innuptaeque puellae («donne e uomini, fanciulli e ragazze ancora non maritate»), riferito alle anime che si affollano in riva all'Acheronte.
Le parole di Virgilio ai vv. 33-36 anticipano la spiegazione dell'aquila nel Cielo di Giove, Par., XIX, 103-105: A
questo regno / non salì mai chi non credette 'n Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno.
Al v. 45 l'agg. sospesi è lo stesso usato da
Virgilio in II, 52.
Il v. 69 (ch'emisperio di tenebre vincia) assume diverso significato a seconda che il sogg. sia che oppure emisperio, e che il verbo voglia dire
«vinceva» o «attorniava»: nel primo caso si legge una luce che vinceva un emisfero di
tenebre, nel secondo che un emisfero di tenebre
attorniava, sempre riferendosi alla luce che proviene dal castello.
La spada che Omero tiene in mano
(v. 86) è un riferimento al fatto che fu poeta guerresco (specie nell'Iliade), ma è anche una connotazione della sua superiorità sugli altri tre.
Il v. 95 (di quel segnor de l'altissimo canto) può riferirsi a Omero o Virgilio, anche se quanto detto prima da Dante fa pensare al poeta greco, definito sire degli altri tre.
La descrizione del castello degli «spiriti magni» si rifà in gran parte a quella dei Campi Elisi dell'Eneide (VI, 638 ss.), specie nel particolare dei poeti che si pongono su una specie di altura da cui possono
vedere tutti gli spiriti (si tratta di una sorta di locus amoenus e la scena è simile anche a Purg., VII, 70 ss., quando Sordello indica a Dante e
Virgilio le anime dei principi
negligenti nella valletta). Le sette mura e le sette porte del castello sono state oggetto delle più
svariate ipotesi interpretative (le sette arti liberali, le sette virtù, le sette ripartizioni della filosofia...), ma nessuna sembra in grado di prevalere sulle altre.
Nei vv. 130-135 è indicata la netta superiorità di Aristotele rispetto a tutti gli altri filosofi, dal momento che lo Stagirita siede più in alto e tutti onor li fanno (ciò è dovuto all'enorme importanza del suo pensiero nel tomismo e nella
teologia cristiana dei secc. XII-XIII).
Il v. 136 allude alla teoria atomistica di Democrito (Dante si rifà probabilmente a san Tommaso d'Aquino).
Dioscoride è detto buono accoglitor del quale (v.
139) in quanto autore di una classificazione delle qualità medicinali delle piante.
Al v. 141 Dante cita Seneca morale, ma non è affatto certo che
volesse distinguerlo da Seneca tragico, visto che probabilmente sapeva bene trattarsi dello stesso autore.