Testo
Al tornar de la mente, che si chiuse
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ParafrasiQuando mi tornarono i sensi, sopraffatti davanti all'angoscia dei due cognati (Paolo e Francesca) che mi riempì di tristezza,
mi vedo intorno nuove pene e nuovi dannati, in qualunque modo mi muova, e mi guardi
intorno.
Sono nel III Cerchio, dove cade una pioggia eterna, maledetta, fredda e molesta; il suo
ritmo e la sua qualità non mutano mai.
allo stesso modo si placarono le facce sozze del demonio Cerbero, che rintrona a tal punto
le anime che vorrebbero essere sorde.
degli abitanti della città divisa (Firenze); se qualcuno di loro è giusto; e dimmi la causa
della discordia che l'ha assalita».
fa' che io conosca il loro destino, poiché ho gran desiderio di sapere se il Cielo li
addolcisce o l'Inferno li avvelena».
e qui trovammo Pluto, il gran nemico.
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TEMPO venerdì santo 8 aprile, verso la mezzanotte LUOGO Una pioggia incessante di acqua sporca, neve e grandine cade sulla terra che esala fetore. PECCATORI Sono i golosi che hanno ceduto in misura smodata al desiderio è all'uso del cibo, seguendo istinti più bestiali che umani. PERSONAGGI Dante, Virgilio, Ciacco e Cerbero. CONTRAPPASSO Riversi a terra e immersi nel fango, sono flagellati dalla pioggia " eterna,maledetta, fredda e greve "; su di essi infierisce il demonio Cerbero, graffiandoli scuoiandoli e squartandoli. Per contrappasso, loro che in vita hanno ceduto in modo bestiale al peccato della gola ora sono schiacciati a terra e ingozzati di disgustosa e maleodorante fanghiglia.
SOMMARIO
vv. 1-33. IL GIRO E DEI GOLOSI E IL MOSTRO CERBERO Dante riprende i sensi, e ai suoi occhi si presenta un nuovo spettacolo di sofferenze e tormenti: sotto una pioggia, che cade incessantemente mista a tempesta, confitti nel fango, sono i peccatori schiavi del vizio della gola. A custodia del girone c'è un demonio deforme con tre teste: Cerbero, che assorda i dannati con i suoi latrati. Scorgendo i due poeti, esibisce un grottesco spettacolo di inutile furore, finché Virgilio, con una manciata di terra, riesce a distoglierlo e a calmare le brame bestiali e a entrare nel girone.
vv.34-75. CIACCO: L'INVETTIVA POLITICA E LA PROFEZIA I due pellegrini iniziano ad attraversare il cerchio dei golosi; solo uno di essi riesce a sollevarsi, ma il suo viso è disfatto dalla sofferenza e lordato dal fango cosicché Dante non è in grado di riconoscerlo: si tratta di Ciacco, fiorentino, pubblicamente noto per il vizio della gola.il dolore di Dante verso il concittadino è grande, ma più grande ancora il desiderio di conoscere la sorte di Firenze.le parole di Ciacco dipingono a fosche tinte il futuro della città: le parti si succederanno al governo fino a quando i Neri riusciranno a prevalere e per i Bianchi e Dante non resterà che l'esilio e la rovina. Le sane tradizioni antiche hanno ceduto il passo alla dilagare del vizio e in particolare all'avarizia, alla superbia e all'invidia.
vv.76-115. IL CONGEDO DA CIACCO E IL DESTINO FINALE DELLE ANIME Ciacco interrompe il discorso, ma Dante vuole ancora conoscere il destino di alcuni noti personaggi che si distinsero nell'impegno a favore della città. La risposta aggrava la tristezza del poeta, poiché per Farinata, Mosca, Tegghiaio, Jacopo Rusticucci, Arrigo, i meriti politici non sono valsi a guadagnare loro la salvezza e anch'essi sono all'Inferno. Ciacco chiede di essere ricordato nel dolce mondo e si immerge nel lurido fango con gli altri compagni di eterna sventura. Virgilio ricorda a Dante che Ciacco si ridesterà nuovamente nel giorno del Giudizio universale per sentire la definitiva condanna del Cristo, giudice terribile dei dannati. Risponde poi alla domanda sulla condizione ultima delle anime quando saranno riunite al corpo: per loro dopo il giudizio il supplizio sarà ancora maggiore. I due poeti infine giungono al luogo da cui si può discendere al girone successivo custodito da Pluto.
G. Stradano, Il III Cerchio (1587)
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gola caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa...
"...Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco..."
E 'l duca a me: "Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica
podesta..."
Ingresso nel III Cerchio. Apparizione
di Cerbero. Pena dei golosi. Incontro con Ciacco e sua profezia sul destino politico della città
di Firenze. Ciacco indica come dannati alcuni fiorentini illustri, tra
cui Farinata Degli
Uberti, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci
e Mosca dei Lamberti. Apparizione di Pluto.
È la notte di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.
Cerbero (min. ferrarese, XV sec.)
Dante si risveglia dopo lo svenimento al termine del colloquio con Paolo e
Francesca e si accorge di essere arrivato nel III
Cerchio, dov'è tormentata una nuova schiera di dannati. Una pioggia eterna, fredda, fastidiosa cade incessante nel
Cerchio, mista ad acqua sporca e neve; forma al suolo una disgustosa fanghiglia, da cui si leva un puzzo insopportabile.
I golosi sono sdraiati nel fango e Cerbero latra orribilmente sopra
di essi con le sue tre fauci. Ha gliocchi rossi, il muso sporco, il ventre gonfio e le zampe artigliate; graffia le anime facendole a brandelli e rintronandole coi suoi latrati. I dannati urlano
come cani per la pioggia, voltandosi spesso sui fianchi nel vano tentativo di ripararsi l'un l'altro. Quando Cerbero vede i due poeti gli si avventa contro, mostrando i denti,
ma Virgilio raccoglie una manciata di terra e gliela getta nelle tre gole. Il mostro
sembra placarsi, proprio come un cane affamato quando qualcuno gli getta un boccone.
G. Doré, I golosi
Dante e Virgilio proseguono e passano letteralmente sopra le anime, che essendo immateriali non oppongono ostacolo. Tutte giacciono al suolo, ma una di
esse si leva improvvisamente a sedere e si rivolge a Dante, chiedendogli se lo riconosce, dal momento che il poeta è nato prima che lui morisse. Dante risponde che il suo aspetto è talmente
stravolto da renderlo irriconoscibile, quindi gli domanda il suo nome, affermando che la pena sua e degli altri golosi è certo la più spiacevole dell'Inferno, se non forse la più
grave.
Il dannato risponde dichiarando anzittutto di essere stato cittadino di Firenze, la città che è piena di
invidia. Il suo nome è Ciacco ed è condannato fra i golosi, che affollano in gran numero il Cerchio. Detto ciò, rimane in
silenzio.
A questo punto Dante ribatte dicendosi pronto a piangere per l'angoscia provocata dalla pena di Ciacco e gli pone tre domande riguardanti la loro comune
patria, Firenze: Dante vuol sapere quale sarà l'esito delle lotte politiche, se vi sono cittadini giusti, quali sono le ragioni delle discordie intestine.
Ciacco risponde alla prima domanda con una oscura profezia, dicendo che dopo una lunga contesa i due partiti (Guelfi Bianchi e Neri) verranno allo scontro fisico (la cosiddetta zuffa di
Calendimaggio del 1300) e i Bianchi cacceranno i Neri con grave danno. Prima che passino tre anni, però, i Neri avranno il sopravvento grazie all'aiuto di un personaggio che si tiene in bilico
tra i due partiti (Bonifacio VIII). I Neri conserveranno il
potere per lungo tempo, infliggendo gravi pene alla parte avversa (condanne ed esili).
La risposta alla seconda domanda è che i giusti a Firenze sono solo in due, ma nessuno li ascolta. Alla terza domanda Ciacco risponde che superbia, invidia ed avarizia sono le tre scintille
che hanno acceso le lotte politiche.
Il III Cerchio, ms. della British Library
Dopo che Ciacco ha cessato di parlare lamentosamente, Dante gli domanda ancora se sa quale sia il destino ultraterreno di alcuni celebri fiorentini, tra
cui Farinata Degli
Uberti,Tegghiaio Aldobrandi degli
Adimari, Iacopo
Rusticucci, un Arrigo (di cui non conosciamo l'identità), Mosca dei
Lamberti. Dante ha gran desiderio di sapere se essi sono all'Inferno o in Paradiso e Ciacco risponde prontamente che
essi sono tra le anime peggiori e si trovano tutti nel più profondo dell'Inferno, dove Dante stesso potrà vederli se scenderà fin laggiù.
Ciacco conclude il suo discorso pregando Dante di ricordarlo ai vivi una volta tornato sulla Terra, quindi non aggiunge un'altra parola. Il dannato strabuzza gli occhi, guarda per qualche istante
il poeta e poi china la testa, ricadendo nel fango insieme agli altri golosi.
Virgilio prende la parola per spiegare a Dante che Ciacco non si solleverà più fino al giorno del Giudizio Universale, quando udirà il suono della tromba
angelica. Allora tutti i trapassati si rivestiranno del corpo mortale, ascoltando la sentenza finale che fisserà in eterno il loro destino ultraterreno. Mentre i due poeti attraversano la
fanghiglia tra le anime, Dante chiede a Virgilio se i tormenti dei dannati aumenteranno dopo il Giudizio, oppure saranno attenuati o resteranno uguali.
Virgilio risponde a Dante invitandolo a pensare alla Fisica di Aristotele, in base alla quale quanto
più una cosa è perfetta, tanto più è in grado di percepire il dolore e il piacere. I dannati non saranno mai perfetti, tuttavia è logico supporre che dopo la sentenza finale raggiungeranno
la pienezza del proprio essere (essendosi riappropriati del loro corpo), quindi implicitamente afferma che le loro pene aumenteranno.
I due poeti aggirano a tondo il Cerchio, parlando di altri argomenti che Dante non riferisce. Quando giungono al punto in cui si scende dal III al IV
Cerchio, trovano il gran
nemico Pluto.
Il Canto VI di ciascuna Cantica è di argomento politico, secondo un climax ascendente che va da Firenze, all'Italia (Purg., VI),
all'Impero (Par., VI): qui il discorso politico è
dedicato alla città di Dante, di cui vengono analizzate le lotte interne e le discordie attraverso il personaggio di Ciacco, uno dei golosi che scontano la loro pena nel III Cerchio in cui Dante
si sveglia dopo lo svenimento alla fine del precedente. Questi dannati sono colpiti da una pioggia incessante, costretti a voltolarsi in un fango maleodorante che contrasta con la prelibatezza e
i profumi dei cibi di cui furono ghiotti in vita, il che rende piuttosto evidente il contrappasso; la pena è accresciuta da Cerbero, mostro che li rintrona col suo latrato e
li graffia... ed iscoia ed isquatra,
proprio come se fossero cibi da cucinare (e lo stesso mostro è una raffigurazione grottesca del peccato di ghiottoneria, con le sue tre gole, la barba unta e atra, il ventre gonfio, la fame rabbiosa che placa mangiando la terra). Il cane a tre
teste è tratto dalla mitologia classica e, al pari dei già visti Caronte e Minosse, rappresenta l'ennesimo caso
di divinità infera demonizzata dal pensiero cristiano, anch'esso con la funzione allegorica di impedimentum morale alla discesa di Dante all'Inferno. Infatti il mostro ringhia e mostra i denti ai due
viaggiatori, tuttavia è neutralizzato da Virgilio che gli getta nelle tre gole una manciata di terra, gesto che ricorda quello della Sibilla nel libro VI dell'Eneide (anche se in quel caso la sacerdotessa lanciava a Cerbero una focaccia intrisa di erbe soporifere)
e che rimanda alla natura demoniaca del mostro, che infatti è stato considerato un'anticipazione di Lucifero che avrà anch'egli tre facce e sarà come il cane trifauce una bizzarra parodia della Trinità.
Il protagonista del Canto è poi Ciacco, un fiorentino vissuto nel Duecento di cui poco si sa a parte quel che ne dicono Dante e Boccaccio in una novella del Decameron (IX, 8), in cui compare anche Filippo
Argenti che troveremo due Canti più avanti tra gli iracondi. È il dannato ad apostrofare Dante e a chiedergli se
lui lo riconosca, cosa impossibile dato il suo aspetto stravolto (non sarà l'unico caso in cui la pena rende pressoché irriconoscibili i dannati o i penitenti del Purgatorio), quindi Dante
rivolge al dannato tre domande sul destino politico di Firenze, profittando del fatto che i dannati possono antivedere il futuro sia pure con le limitazioni che verranno precisate in seguito da
Farinata. Il poeta vuole sapere infatti cosa avverrà nella città paritita, divisa in opposte fazioni, se vi sono cittadini giusti e qual è stata la causa delle discordie che lacerano Firenze: Ciacco risponde profetizzando la vittoria dei Guelfi Neri
nel 1301-1302, che causerà l'esilio di Dante (è la prima di una lunga serie di profezie su questo argomento), dichiarando che a Firenze i cittadini che onorano la giustizia sono ben pochi e
infine ricordando che le cause delle divisioni politiche sono superbia, invidia ed avarizia, quindi le tre disposizioni peccaminose che sono all'origine del disordine morale dell'Italia del tempo
(l'avarizia era già simboleggiata
dalla lupa, la superbia dal leone; l'invidia è il peccato che
spinse Lucifero a ribellarsi a Dio e che aveva fatto uscire la lupa dall'Inferno, secondo
quanto detto in Inf., I, 111). Col discorso di
Ciacco, Dante intende stigmatizzare le divisioni interne di Firenze, che tante ingiustizie e dolori causeranno e che saranno frutto della avidità di denaro:l'avarizia dei Fiorentini sarà
duramente criticata anche in altri celebri passi del poema, specie nel discorso sul maladetto
fiore di Folchetto di Marsiglia (Par., IX, 127-142) in cui la città
verrà addirittura definita come il prodotto di Lucifero, mentre l'invidia di cui secondo Ciacco è piena Firenze è anche quella provata dai concittadini di Dante verso il poeta per la sua condotta
politica, che causerà il suo esilio in seguito ai fatti del 1301-1302 (discorso simile verrà fatto da Brunetto Latini nel Canto XV dell'Inferno). Sempre in quest'ottica va
letta l'altra domanda sul destino escatologico dei fiorentini illustri (quelli ch'a ben far puoser li
'ngegni), vissuti nella prima metà del XIII sec. e protagonisti di una Firenze ideale, la stessa vagheggiata
dall'avo Cacciaguida nel Canto
XV del Paradiso: se ebbero meriti politici, non altrettanto può dirsi di quelli morali, visto che Ciacco preannuncia la loro
dannazione (Dante incontrerà Farinata tra gli eresiarchi del VI Cerchio, Tegghiaio e il Rusticucci
tra i sodomiti del VII, Mosca tra i seminatori di
discordie della IX Bolgia dell'VIII Cerchio).
L'ultima parte del Canto riguarda il destino dei dannati dopo il Giudizio Universale, spiegato da Virgilio in base ai principi della Fisica di Aristotele e in seguito alla sua affermazione
secondo cui Ciacco, ricaduto nel fango al termine del suo discorso con Dante, non si rialzerà più fino all'angelica
tromba (allora le anime risorte si rivestiranno dei loro corpi mortali, secondo un punto qualificante della dottrina
che sarà toccato anche altrove da Dante: cfr. Par., XIV, 34-60). Secondo Virgilio il
maggior grado di perfezione di una creatura ne accresce la sensibilità al piacere e al dolore, quindi, anche se i dannati non saranno mai perfetti, dopo che si saranno riappropriati del corpo il
loro essere sarà più completo, quindi le loro pene accresceranno. L'accenno al Giudizio finale rimanda allo scontro tra Cristo e l'Anticristo, che dirimerà ogni divisione terrena e
ristabilirà la giustizia in eterno: il primo è definito qui nimica podesta, il secondo è implicitamente evocato attraverso Pluto, il gran nemico (ovvero il demonio) che appare alla fine del canto e si ricollega in parte a Cerbero, definito demonio e gran
vermo, lo stesso attributo di Lucifero.
I due cognati (v. 2) sono Paolo e
Francesca, i lussuriosi incontrati da Dante
nel Canto V; ascoltando la loro storia il poeta era svenuto e all'inizio di questo Canto
riprende i sensi.
Il v. 14 presenta una cesura in tmesi, tra canina- e -mente (l'avverbio di modo è spezzato
nei suoi elementi etimologici).
Al v. 21 miseri profani è probabilmente una
dittologia sinonimica che sta per «miseri moralmente e materialmente» (altri intendono l'espressione come «dannati»).
Il v. 36 allude al fatto che le anime hanno corpi inconsistenti, quindi Dante e Virgilio possono porre su di loro le piante dei piedi come se non esistessero. Tavolta Dante è coerente con tale
principio, in altri casi invece descrive le anime come corpi solidi (ciò per esigenze poetiche di maggior realismo).
Il v. 42 contiene il bisticcio verbale disfatto / fatto, di
gusto tipicamente guittoniano.
Al v. 61 Dante definisce Firenze la città partita in quanto divisa
in fazioni politiche.
Al v. 65 la parte selvaggia indica i Bianchi, detti
così perché i Cerchi che ne erano a capo venivano dal contado. Il fatto di sangue citato da Ciacco è la cosiddetta zuffa di Calendimaggio (1° maggio 1300) tra sostenitori dei Cerchi e dei Donati,
in cui fu coinvolto anche l'amico di Dante, Guido Cavalcanti, che venne poi esiliato con
provvedimento firmato dal poeta che ricopriva la carica di priore.
Il v. 69 indica certamente Bonifacio VIII, che nel 1301-1302 fingeva di far da paciere tra le due fazioni e in realtà parteggiava segretamente per i Neri; alcuni hanno pensato
a Carlo di Valois, le cui armi rovesciarono i Bianchi nel 1301.
Il v. 73 (giusti son due) vuol dire probabilmente
che i giusti, a Firenze, sono pochissimi, ma non sono mancate interpretazioni più puntuali (i due giusti sarebbero Dante e Dino Compagni, Dante e Guido Cavalcanti, ecc.). Alcuni commentatori
hanno inteso giusto come sinonimo
didiritto, quindi i
due giusti sarebbero il diritto
naturale e quello codificato con la legge, ma è ipotesi poco probabile.
Al v. 79 Tegghiaio è bisillabo per via del
trittongo -aio.
L'Arrigo di cui parla Ciacco al
v. 80 è un personaggio non identificato, che non viene più nominato fra i dannati.
Al v. 84 attosca significa propriamente
«avvelena», da tosco, «veleno»
(cfr. XIII,
6, stecchi con tosco).
Al v. 96 la nimica podesta è Cristo giudicante,
così definito in quanto nemico dei dannati.
I vv. 97-99 alludono alla credenza cristiana per cui, il Giorno del Giudizio, le anime risorte andranno nella valle di Iosafat a riappropriarsi dei loro corpi mortali (cfr. XIII, 103-108).
La spiegazione di Virgilio ai vv. 106-111 si rifà strettamente al commento di san Tommaso d'Aquino al De anima
di Aristotele, che cita quasi alla lettera: quanto anima est perfectior, tanto exercet plures perfectas operationes et
diversas («quanto più l'anima è perfetta, tanto più numerose e perfette e diverse sono le operazioni che
esercita»).