La nascita e la denominazione del movimento crepuscolare

 

La poesia crepuscolare fiorì tra il 1905 e il 1915, in piena età giolittiana. La denominazione è dovuta al critico A. Borgese che pubblicò nel 1910 un saggio dal titolo “Poesia crepuscolare”.

 

Giuseppe Antonio Borgese affermò che la poesia italiana, dopo «la meravigliosa giornata lirica» che aveva compiuto la sua parabola da Parini a D’Annunzio, si stava spegnendo in un «mite e lunghissimo crepuscolo», espresso dal «poetare sfiancato e invertebrato» di un gruppo di lirici, il cui unico tema era «la torbida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare». Quindi all'inizio questo termine esprime un giudizio fortemente negativo, come dire una poesia che non valeva niente

In seguito, come spesso avviene nel campo della critica letteraria, il termine Crepuscolarismo perse ogni connotazione negativa e fu usato per individuare e definire un clima, un atteggiamento o uno stato d’animo in cui, nel primo Novecento, si riconobbero poeti che ebbero una comune sensibilità e concezione della poesia, ma che non diedero vita a un movimento letterario fornito di un preciso programma, come invece fecero i futuristi.

I principali autori sono: Guido Gozzano, Sergio Corazzini e Marino Moretti

Il Crepuscolarismo pertanto non fu una vera e propria scuola poetica, ma un movimento costituito da personalità diverse e tuttavia accomunate da atteggiamenti psicologici e da orientamenti poetici.

La condizione esistenziale comune ai crepuscolari fu quella caratterizzata da una certa stanchezza interiore, da una volontà di non apparire, di rimpicciolirsi e considerarsi uomini di poco conto (atteggiamento questo che porterà per esempio G. Gozzano a nominarsi in una sua lirica come “guidogozzano”, o Corazzini a dire: “Perché tu mi dici: poeta? / io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange”, o Moretti ad intitolare una sua raccolta “Poesie scritte col lapis”(lapis = matita)) da una condizione di velata e tenue tristezza, per cui Moretti può confessare: “Io sento in me la tristezza / del giorno domenicale / del giorno crepuscolare / nel quale l’anima prova / il bisogno d’una nuova / solitudine...Oh dolcezza del mio cuore / dei miei sensi un poco stanchi”.

 

 Il poeta crepuscolare avverte una sensazione di stanchezza, un peso che grava sulla sua anima che lo porta ad un ripiegamento interiore, a un analizzare se stesso e a percepire quasi in sé una malattia, per cui Corazzini può dire: “Oh, io sono veramente malato! / E muoio, un poco, ogni giorno”. E c’è poi il desiderio di annullamento, di riduzione a cosa, di sparire, così Corazzini ancora dirà: “voglio / raggomitolarmi al sole / come un gatto a dormire / fino alla consumazione / de’ secoli!”. 

 

I crepuscolari espressero una visione nostalgica del  passato; vissero il disagio dell’eclissamento dei grandi ideali dell’età risorgimentale, della perdita di entusiasmo per la fede, per la scienza e per il progresso.

Distrutti pertanto gli ideali, le fedi, le ragioni dell’operare, spenta ogni facoltà di adesione piena, di impegno profondo, di partecipazione totale, rimase in loro un residuo di nostalgia, di rimpianto, che si manifestò in una rinunzia a vivere e la vita e in una volontà  di osservarla e descriverla.

 

I crepuscolari rifiutavano la poetica retorica, celebrativa di Carducci e l’esasperato estetismo di D’Annunzio. Ai contenuti aulici e sublimi del passato contrapposero le atmosfere grigie e malinconiche della vita quotidiana, le piccole cose di ogni giorno, anche quelle «di pessimo gusto», gli ambienti più banali e semplici, le abitudini e gli affetti di una vita monotona e provinciale.

In perfetta corrispondenza con questi temi ispiratori, la poesia crepuscolare fu pervasa da un’atmosfera dai toni malinconici, tristi, seppur attenuati da una garbata ironia, e da un linguaggio semplice e dimesso, che volutamente rifiutava qualsiasi preziosità stilistica.

Questo atteggiamento dei crepuscolari nasceva da una profonda delusione per la caduta dei grandi ideali storici e politici che avevano animato l’Ottocento e dall’insoddisfazione per la situazione incerta del loro tempo. È dunque per questo che essi si rifugiavano nella nostalgia del passato o dell’infanzia (considerata come un momento di felicità e di sicurezza) e aspiravano a una vita semplice, non dominata da slanci o passioni.

La solitudine, la struggente nostalgia di esperienze vitali destinate a rimanere ignote ed estranee, la sofferenza legata alla malattia e il desiderio di morte, il mondo delle piccole cose e degli affetti comuni, l’inutilità della poesia nella società moderna furono i temi principali dei componimenti di Sergio Corazzini, nato a Roma nel 1886 e morto giovanissimo di tisi nel 1907. La sua breve esistenza trascorse triste e angusta, oppressa dalle sofferenze del male inguaribile e dalle ristrettezze economiche, ma ardente e tenace fu in lui l’amore per la poesia che animò la sua fugace ma intensa attività letteraria, svolta tra il 1904 e il 1906.

Per il torinese Guido Gozzano (1883-1916)

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l’esponente più significativo del Crepuscolarismo, la poesia è una sorta di sostituto artificiale di quella vita che la malattia (anch’egli soffre di tisi) e la negatività del presente gli impediscono di vivere in pienezza: degradata e ridotta a merce, la letteratura può sopravvivere solo come finzione, collocandosi al di fuori della vita e della storia. Il carattere artificioso della poesia si accompagna a una serie di espedienti formali, come la mescolanza del lessico prezioso della tradizione con quello basso della parlata quotidiana, con finalità stranianti e ironiche. L’opera maggiore di Gozzano è la raccolta I colloqui (1911) e tra i componimenti più famosi e significativi de I colloqui ricordiamo La signorina Felicita, ritenuto il capolavoro di Gozzano: nel giorno di Santa Felicita, il poeta ripensa con nostalgia al semplice e delicato idillio amoroso da lui intrecciato in un paesino di montagna con una cara e buona ragazza, non bella e non colta, ma ricca di sensibilità e di gentilezza, la signorina Felicita, figlia di un signorotto del luogo. Nel poemetto Gozzano rievoca, in un tenero immaginario colloquio con la fanciulla, i momenti più importanti di quel breve e ingenuo idillio: momenti fatti di niente, eppure carichi di tenerezza e di incanto.

Il romagnolo Marino Moretti (1885-1979) privilegia le atmosfere chiuse e grigie di una provincia popolata da figure tristi e rassegnate, a  sottolineare la noia della vita.

 

 

GUIDO GOZZANO – La signorina Felicita o vero la felicità

I

Signorina Felicita, a quest'ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest'ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all'avvocato che non fa ritorno?
E l'avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d'un autunno addietro,
Vill'Amarena a sommo dell'ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l'orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa...

Vill'Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell'edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga dalle stanze morte!
Odore d'ombra! Odore di passato!
Odore d'abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell'eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d'Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore...

Penso l'arredo - che malinconia! -
penso l'arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell'Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere... Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi paziente... Avita
semplicità che l'anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

II.

Quel tuo buon padre - in fama d'usuraio -
quasi bifolco, m'accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell'uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

"Senta, avvocato..." E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l'ascoltavo docile, distratto
da quell'odor d'inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto...
"...la Marchesa fuggì... Le spese cieche..."
da quel parato a ghirlandette, a greche...
"dell'ottocento e dieci, ma il catasto..."
da quel tic-tac dell'orologio guasto...
"...l'ipotecario è morto, e l'ipoteche..."

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: "Ma l'ipotecario
è morto, è morto!!...". - "E se l'ipotecario
è morto, allora..." Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
"Ecco il nostro malato immaginario!".

III.

 

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d'efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un azzurro di stoviglia...


Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un'amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l'ignoto villeggiante forestiero.

Talora - già la mensa era imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d'altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita...

Per la partita, verso ventun'ore
giungeva tutto l'inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m'avevano in dispregio...


M'era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d'aglio di cedrina...

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell'acciottolio.

Sotto l'immensa cappa del camino
(in me rivive l'anima d'un cuoco
forse...) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d'un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino...

Vedevo questa vita che m'avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell'altra stanza.


IV.

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch'è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

"é quella che lascò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno... E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena... L'han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s'ode il suo passo lungo i corridoi...".

Il nostro passo diffondeva l'eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l'un piede ignudo in mano,
si riposava all'ombra d'uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v'era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v'erano stampe di persone egregie;
incoronato dalle frondi regie
v'era Torquato nei giardini d'Este.
"Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliege?"

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell'Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall'abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco - pensavo - questa è l'Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c'è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei "cosi
con due gambe" che fanno tanta pena...

L'Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all'odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere...

Schierati al sole o all'ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell'oro;
o Musa - oimè! - che pu˜ giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell'oro, dell'alloro...

L'alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l'alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s'esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui...

"Avvocato, non parla: che cos'ha?"
"Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città...
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!..."
"Qui, nel solaio?..." - "Per l'eternità!"
"Per sempre? Accetterebbe?..." - "Accetterei!"

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l'ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

"Che ronzo triste!" - "é la Marchesa in pianto...
La Dannata sarà che porta pena..."
Nulla s'udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena...

Un richiamo s'alzò, querulo e roco:
"é Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo; è l'ora della cena!". - "Guardi,
guardi il tramonto, là... Com'è di fuoco!...
Restiamo ancora un poco!" - "Andiamo, è tardi!"
"Signorina, restiamo ancora un poco!..."

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pippistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s'annunciò la notte
sulla serenità canavesana...

"Una stella!..." - "Tre stelle!..." - "Quattro stelle!..."
"Cinque stelle!" - "Non sembra di sognare?..."
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessitˆ crepuscolare:
"Scendiamo! é tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle..."





V.

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei marchesi, ove la traccia
restava appena dell'età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l'insalata.

L'insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi...
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.

"Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m'avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell'aurora che dicono: l'Amore..."

Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
"Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?".

"Perché mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..."
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m'accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
"Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!"

"Piange?" E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l'orecchio, il collo snello...
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d'improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

VI.

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l'aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte...

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d'essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t'han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d'un'intellettuale gemebonda...

Tu ignori questo male che s'apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...

Ed io non voglio più essere io!


VII.

Il farmacista nella farmacia
m'elogiava un farmaco sagace:
"Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d'oro, in fede mia!"
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacitˆ mordace.

"Ma c'è il notaio pazzo di quell'oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca...
E la dote... la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno..."

"Ma dunque?" - "C'è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla..."
"é geloso?" - "Geloso! Un finimondo!..."
"Pettegolezzi!..." - "Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla..."

"Non tema! Parto." - "Parte? E va lontana?"
"Molto lontano... Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo..."
"Davvero parte? Quando?" - "In settimana..."
Ed uscii dall'odor d'ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva "un punto sopra un I gigante".

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d'argento fatti nell'incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s'usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull'altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l'Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre
la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s'udiva il grido delle strigi alterno...
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant'anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L'una m'incalza quando l'altra appare;
quella m'esilia in terra d'oltremare,
questa promette il bene che sarà...


VIII.

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell'estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti da bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

"Viaggio con le rondini stamane..."
"Dove andrà?" - "Dove andrò? Non so... Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio...
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell'Atlantico selvaggio...

Signorina, s'io torni d'oltremare,
non sarà d'altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l'altare?"
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette...
Io non sorrisi. L'animo godette
quel romantico gesto d'educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d'addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti...
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole...

"Un altro stormo s'alza!..." - "Ecco s'avvia!"
"Sono partite..." - "E non le salutò!..."
"Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò..."

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d'altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine...

M'apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...

Quello che fingo d'essere e non sono!

 

 

Guido Gozzano nacque a Torino nei 1883. Di famiglia borghese benestante (ma in progressivo declino), dopo gli studi liceali si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza senza però portare a termine gli studi. Preferì seguire i corsi di Lettere e le lezioni di Arturo Graf in particolare e frequentare i circoli letterari della città (ebbe amici Vallini e Calcaterra, fra gli altri). Memorabili sono, nella sua breve esistenza, i soggiorni estivi ad Aglié - dove verosimilmente colloca la Villa Amarena della Signorina Felicita - e la relazione con Amalia Guglielminetti, poetessa che incarna il modello di donna colta e sofisticata (una delle donne «rifatte sui romanzi»), Nel 1912-1913 compì un viaggio in India di cui scrisse un resoconto per «La Stampa» (gli articoli vennero più tardi raccolti nel volume Verso la cuna del mondo, 1917). Minato dalla tubercolosi, morì a Torino nel 1916. Fra le sue raccolte poetiche da segnalare: La via del rifugio (1907) e soprattutto I colloqui (1911), che rimangono il suo capolavoro. Lavorò anche ad un poemetto, Le farfalle, e scrisse racconti e fiabe.


LA SIGNORINA FELICITA

Una novella patetica in versi. La Signorina Felicita ovvero la Felicità è una novella in versi che prende a soggetto la "vacanza" in un innominato paesino del canavese di un avvocato raffinato, colto e letterato, cui accade di definirsi un «esteta gelido» (v. 321) e che è uno scoperto alter ego di Gozzano. Qui egli incontra Felicita, donna nubile non più giovanissima, non bella e tanto più semplice e povera di lui, da apparire agli occhi di chiunque (anche della stessa Felicita, v. 272) un oggetto non desiderabile per lui. Ma l'avvocato-letterato cittadino è saturo del mondo delle donne «rifatte sui romanzi» (v. 258) e dei poeti magniloquenti che «tra clangor di buccine s'esaltano» (v. 202); pertanto in qualche misura indulge a vagheggiare nel paesino di provincia, nella secentesca villa Amarena, ridotta a misura prosaica dalla «cortina / di granoturco» (vv. 21-22), e in Felicita, dalla «faccia buona e casalinga» (v. 75), dagli occhi «d'un azzurro di stoviglia» (v. 84), un'alternativa autentica al proprio mondo e alla propria abituale esistenza. Di qui nasce la storia, oggettivamente crudele e patetica - ma di una crudeltà e di un pathos riscattati da un senso di profonda pietà e complicati dall'ironia -, del corteggiamento di Felicita, delle deboli ripulse di lei, del suo «sgomento indefinito» (v. 266), dell'inutile promessa carpita nel momento dell'abbandono (vv. 403-404)...
Consapevolezza della finzione. Ma se è vero che l'avvocato è saturo di quel mondo che ha momentaneamente lasciato, è anche vero che non lo è abbastanza per tagliare definitivamente i ponti con esso, sul piano della realtà di fatto. Tutto il vagheggiamento di Felicita, della sua autenticità e della sua semplicità d'altri tempi («semplicità che l'anima consola, / semplicità dove tu vivi sola / con tuo padre la tua semplice vita», vv. 46-48) avviene in effetti nella dimensione di un sogno ad occhi aperti (condotto in presenza della ragione, verrebbe da dire), di un compiaciuto fantasticare, della cui impossibilità e irrealtà il protagonista è perfettamente conscio. Si badi: l'avvocato non è lacerato dall'incertezza se lasciare o meno quel mondo "falso" e tuffarsi in questo "vero"; egli non è, in questo senso, un personaggio drammatico. Sa perfettamente qual è il suo mondo (e il suo destino) e sa che in ogni caso non potrebbe realmente adattarsi a vivere con Felicita a Villa Amarena. Sa di fingere con se stesso, sa che il suo sogno è una finzione. E concluderà infatti nel segno della consapevolezza commentando l'immagine di «buono / sentimentale giovine romantico...» con le parole «quello che fingo d'essere e non sono! ». Questa consapevolezza che una finzione (con Felicita e con se stesso) è in atto determina e condiziona l'intero trattamento della materia narrativa e linguistica, come vedremo.

La malattia. L'avvocato è poi malato. Malato in duplice senso. In primo luogo soffre d'una malattia fisica (la tisi?) che, soprattutto, getta un'aura malinconico-crepuscolare su tutta la vicenda e in particolare sull'ambiguo legame con Felicita (lei promette, lui sa che non tornerà perché gli resta poco da vivere - ma così vede le cose Felicita e così ama figurarsele l'avvocato che però, in fondo, sa che non tornerà anche per altri motivi). In secondo luogo la malattia dell'avvocato è una malattia morale che ha più vaste e complesse risonanze. È la malattia morale di chi vuole e disvuole, ma in fondo non sa desiderare realmente nulla, di chi non sa vivere autenticamente, né in fondo lo vuole davvero, compiaciuto com'è della propria ambigua condizione, di chi guarda a ogni sentimento e a ogni ideale - alla vita stessa - con garbato cinismo. Estetismo razionalmente rifiutato, ma vagheggiato nel profondo, insomma.

 

 

I luoghi e la signorina Felicita

Nella descrizione della casa di Felicita, gli elementi familiari e rassicuranti coesistono con

quelli cupi e malinconici.

Il poeta descrive Felicita prima attraverso il ricordo delle occupazioni abituali della donna, poi

tratteggiandone l’aspetto fisico e la personalità, in un continuo alternarsi di nostalgia e ironia.

 

Prova a ricostruire l’immagine della donna che emerge dai versi del poemetto, evidenziando le informazioni che ti sembrano ironiche e che esprimono nostalgia e affetto nei confronti del ricordo di Felicita.