Umberto Saba è sicuramente tra gli intellettuali più importanti dei primi del ’900: poeta e scrittore, il suo vero nome è Umberto Poli, mentre Saba è il cognome che sceglie quando comincia a dedicarsi all’attività letteraria.
Parlavo vivo a un popolo di morti. Morto alloro rifiuto e chiedo oblio.
Così recita l’epigrafe del poeta di cui è interessante conoscere vita, poesie più importanti e poetica, non solo per prepararsi meglio alla Maturità, ma anche perché è senza dubbio uno dei poeti più importanti d’Italia.
Umberto Saba: vita e opere principali
Umberto Saba pseudonimo di Umberto Poli nasce a Trieste nel 1883. L’abbandono della famiglia da parte del padre prima della sua nascita, le apprensioni della madre, di origine ebrea, l’affetto eccessivo della balia slovena saranno momenti sempre ricordati e sviscerati nella sua poesia, che si caratterizza subito come autobiografica.
Lascia il cognome paterno (Poli) come segno di ostilità verso il padre e sceglie lo pseudonimo di Saba – parola ebraica che significa «pane» – in omaggio alla mamma e probabilmente anche in omaggio alla sua amata balia.
Umberto Saba - pseudonimo di Umberto Poli - nasce a Trieste il 9 marzo 1883 da Ugo Edoardo Poli, agente di commercio appartenente ad una nobile famiglia di Venezia, e da Felicita Rachele Cohen, un’ebrea di Trieste nipote di Samuel David Luzzatto, ebraista, poeta e storico.
Il padre di Saba lo abbandona e questo evento segna profondamente la vita del poeta, la cui infanzia fu triste e malinconica a causa di questa assenza.
Inoltre sua madre decide di farlo allevare da una balia slovena Gioseffa Gabrovich Schobar (detta Peppa Sabaz) che il poeta ame come una vera madre e la considera tale.
Infatti, oltre al fatto di onorare le radici ebraiche della madre (Saba in ebraico significa “pane”), è anche per richiamare il soprannome della sua balia che il poeta sceglie lo pseudonimo di Saba.
All’età di tre anni la madre decide di riportare suo figlio a casa con sé e questo è il primo trauma del poeta, anche perché la sua balia aveva riversato su di lui un grande amore dato dal fatto di aver perso suo figlio, ricambiato in tutto e per tutto da Saba.
Da qui in poi Saba cresce con sua madre e le sue due zie (una vedova e l’altra nubile) che gestiscono una bottega di mobili ed oggetti usati.
La carriera scolastica è irregolare; la sua giovinezza, agitata da problemi prima familiari e poi razziali – egli vive nel ghetto di Trieste –, trova un rifugio nella fantasia e in quelle che egli poi definì «le sterminate letture d’infanzia».
I suoi studi sono discontinui: frequenta il Ginnasio Dante Alighieri, ma alla madre viene sconsigliato di fargli continuare gli studi; si iscrive alla Imperial Regia Accademia di Commercio e Nautica, ma frequenta solo metà anno; infine si imbarca su una nave come mozzo.
Nel 1903 si trasferisce a Pisa per frequentare l’università: dopo un periodo in cui segue i corsi di letteratura italiana, decide di lasciarli per frequentare i corsi di archeologia, tedesco e latino.
Nel corso della sua vita, lo scrittore deve sempre fare i conti con nevrastenie e depressioni, una delle quali lo porta a tornare a Trieste nel 1904 a seguito di un litigio con un amico.
Nel 1909 Umberto Saba sposa Carolina Wöfler, compagna di tutta la vita, che canta nei suoi versi con il diminutivo di Lina.
L’anno successivo pubblica a Firenze, a sue spese, la raccolta Poesie, nella quale usa per la prima volta lo pseudonimo Saba, che in ebraico significa “pane”, ma è anche un omaggio alla balia che lo ha allevato nei primi anni di vita e che portava il cognome Sabaz. Intanto intensifica i contatti con gli esponenti dell’ambiente letterario e collabora con la rivista La Voce.
Nel 1918 apre nella città natale una piccola libreria antiquaria, che diventa luogo d’incontro di scrittori e artisti. Può finalmente godere di un periodo di vita relativamente agiata e dedicarsi completamente alla poesia.
Nel 1921 Umberto Saba pubblica tutta la sua produzione poetica in un volume intitolato Canzoniere.
Il titolo è poi ripreso anche per la prima edizione del volume pubblicato nel 1945, che raccoglie tutte le opere precedenti. Altre successive liriche confluiscono nell’edizione del 1948 e poi in quella postuma del 1961.
Il Canzoniere fu dunque concepito come un libro in costante accrescimento, nel quale è realizzata una vera e propria autobiografia in versi, dalla quale emerge una concezione della poesia molto lontana sia dal modello di poeta-vate offerto in quegli anni da Gabriele D’Annunzio sia dai poeti che privilegiavano lo sperimentalismo appariscente delle avanguardie.
Nel 1928 la rivista Solaria dedica un intero numero alla poesia di Umberto Saba, imponendolo all’attenzione nazionale.
Nel 1941 le leggi razziali costringono Umberto Saba a lasciare l’Italia; dopo una permanenza a Parigi però ritorna e, durante l’occupazione tedesca, vive nascosto a Roma.
Nel 1946 gli viene assegnato il premio Viareggio.
Nel 1947 pubblica il volume autocritico in prosa Storia e cronistoria del Canzoniere in cui parla di sé e della propria poesia in terza persona.
Dal 1950 in poi la sua salute peggiora ed è costretto a frequenti ricoveri.
Nel 1953 in un periodo di ritrovata serenità scrive il romanzo Ernesto, che rimane però incompiuto e sarà pubblicato postumo nel 1975.
L’anno successivo Umberto Saba perde completamente l’uso delle gambe e la situazione familiare è aggravata dalla malattia della moglie Lina, che muore poco meno di un anno prima di lui, lasciandolo terribilmente solo e demotivato nei confronti della vita, tanto che non scriverà più neppure un verso. Muore nell’ospedale di Gorizia il 25 agosto 1957, all’età di 74 anni.
Opera, poetica, stile
Umberto Saba compone versi semplici, ricorrendo alle forme metriche tradizionali, con abbondante uso della rima e con una sintassi piana e lineare. I suoi modelli del resto risalgono alla più classica tradizione italiana: Petrarca, Parini, Leopardi, Manzoni.
Umberto Saba rifugge dall’artificio, dal gusto estetizzante, dalla ricerca della raffinatezza o del puro gioco linguistico. La sua è una lingua semplice, chiara, quotidiana, molto vicina alla prosa e al parlato.
I temi dominanti della sua produzione poetica sono la città di Trieste, gli affetti personali e familiari, i ricordi dell’infanzia, i sentimenti di fraternità e solidarietà che nutre per l’uomo, la gioia e il dolore, parametri costanti della vita, inscindibilmente intrecciati nei suoi versi, dai quali scaturisce quella «serena disperazione» che il poeta ha scelto come titolo per una sezione del suo Canzoniere.
Nel 1906 si trasferisce a Firenze, città in cui inizia a condurre un’intensa vita culturale; in questi stessi anni conosce Carolina Wölfler (la Lina delle sue poesie), che in seguito diventerà sua moglie, da cui nasce la figlia Linuccia.
Nel 1910 pubblica Poesie, la sua prima raccolta di poesie, seguita da Coi miei occhi (il mio secondo libro di versi) che poi diventerà noto con il nome di Trieste e una donna.
Nel 1913 si trasferisce a Bologna insieme alla famiglia, mentre l’anno dopo si sposta a Milano.
Nel periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale, Saba assume posizioni interventiste, tanto che collabora con Mussolini al Popolo d’Italia.
Parte per la guerra in posizioni di retrovia, ma quando torna del 1918 le sue crisi nervose si sono acuite ed è costretto a farsi ricoverare nell’ospedale militare di Milano.
Dopo la guerra, Saba torna a Trieste e apre la Libreria antica e moderna e nel 1921 esce la prima edizione del Canzoniere, la sua opera più importante di cui la versione definitiva viene pubblicata nel 1961, dopo la sua morte.
Questo periodo per lui è molto duro, caratterizzato da frequenti crisi nervose, tanto che decide di farsi seguire da uno psicanalista, il dottor Weiss (lo stesso di Italo Svevo).
Nel 1938 deve abbandonare Trieste e trasferirsi a Parigi, a causa delle leggi razziali e delle sue origini ebraiche, tornando in Italia l’anno successivo e cercando rifugio a Roma, dove lo trova in Eugenio Montale.
Nel 1943 viene pubblicata a Lugano la raccolta Ultime cose, poi riedita da Einaudi nel 1945; successivamente si trasferisce a Milano dove collabora con Il Corriere della Sera per dieci anni, pubblicando con Mondadori Scorciatoie e raccontini e con Storia e cronistoria del Canzoniere , un auto commento alla sua opera.
In questo periodo riceve diversi riconoscimenti, tra cui la laurea honoris causa dall’Università di Roma.
Nel 1955, dopo una svolta religiosa molto forte, decide di farsi ricoverare in una clinica di Gorizia, dove passerà i suoi ultimi anni, fino alla morte, sopraggiunta il 25 agosto 1957.
Umberto Saba: la poetica
A parlare indirettamente della sua poetica è lo stesso Saba che in un testo del 1912 dal titolo “Quello che resta da fare ai poeti” spiega come dovrebbe venir scritta la poesia.
Secondo il poeta, dunque, la poesia deve essere capace di descrivere la condizione umana in modo sincero, rappresentando la quotidianità.
Per questo la sua poetica è caratterizzata da un linguaggio semplice, quotidiano, che però va a fondo nell’interiorità del poeta, facendo emergere inquietudine e fragilità, dovute alle nevrosi e alle depressioni di Saba.
Il suo percorso psicanalitico influenza la sua poesia, che diventa un mezzo per far chiarezza sui propri traumi interiori, sulle origini delle nevrosi e sull’inquietudine che caratterizza l’animo umano.
Un tema a lui caro è quello della città di Trieste (titolo di una delle sue poesie più famose), amata e odiata allo stesso tempo, che influenza spesso la scrittura del poeta.
Il desiderio di veridicità non si traduce in una scrittura oggettiva perché ad esso Saba affianca la continua analisi del suo mondo interiore. Lo stile, però, è conservatore e tradizionale, prediligendo le strutture tradizionali.
Il suo linguaggio è semplice e diretto, come la lingua parlata. I temi che sceglie sono autobiografici, analizzati attraverso lo studio delle teorie psicoanalitiche di Freud
SABA E LA POESIA ONESTA
«Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo».
In questi primi versi della poesia Amai di Umberto Saba emerge il concetto fondamentale della sua poetica, la «poesia onesta», a cui dedica la lettera inviata a Scipio Slataper, nota come Quello che resta da fare ai poeti.
In uno scritto del 1911 intitolato “Quello che resta da fare ai poeti” Saba espone le sue idee sulla poesia. Quest’opera venne scritta da Saba con l’intento di pubblicarla sulla rivista avanguardista «La voce».
Il concetto di onestà corrisponde al saper esprimere le verità profonde e comuni degli uomini attraverso una forma poetica apparentemente semplice, che sappia però comunicare concetti sinceri.
Egli predilige una poetica originale, attraverso la quale il poeta riesca a restare sé stesso e ad esprimere, senza superflui abbellimenti, la sua vera natura e la sua interiorità, senza ingannare sé ed il lettore.
in particolar modo la sua critica è rivolta contro D’Annunzio. Quest’ultimo, emblema del decadentismo italiano, aveva fatto dell’estetismo il suo stile di vita e la sua poesia appare esagerata con il solo intento di far clamore.
A D’Annunzio Saba contrappone Manzoni, definito, al contrario, un «poeta onesto» perché capace di realizzare una poesia profonda, che rispecchi l’interiorità e l’animo del poeta e che faccia emergere la corrispondenza tra il reale e lo scritto come forma di sincerità, a discapito della bellezza e dell’apparenza tipiche dell’estetismo.
Per Saba il poeta non deve scrivere per ottenere la gloria o per «avidità di battimani», ma per puro amore dell’arte, rielaborando la sua ispirazione a tale fine.
Il poeta assume così il ruolo di «ricercatore della verità», che lo trasforma da semplice intellettuale ad uomo capace di indagare la propria interiorità e di mostrarsi autenticamente. Saba, infatti, tenta di omologare la figura del poeta a quella del santo e del filosofo, «facendone una presenza fuori dal tempo autorizzata ed investita in un rapporto con l’assoluto».
Leggiamo alcuni passi “Quello che resta da fare ai poeti”
“Ai poeti resta da fare la poesia onesta … C’è un contrapposto, che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il mio pensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele D’Annunzio: fra gli Inni sacri e i Cori dell’Adelchi, e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri ed immortali e magnifici versi per la più parte caduchi. L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore (…) sono i due termini cui può benissimo ridursi la differenza tra i due valori.
A chi sa andare ogni poco oltre la superficie dei versi, apparisce in quelli di Manzoni la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione: mentre vede che l’artificio del D’Annunzio non è solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento : e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso. Egli si ubriaca per aumentarsi, l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani: per non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore, resta se mai al di qua dell’ispirazione. (…) quello che ho chiamato onestà letteraria (…) è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prender la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. Benché esser originali e ritrovar se stessi siano termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio di originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quelli che gli altri hanno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato. (…) solo quando i poeti, o meglio il maggior poeta di una generazione, avrà rinunciato alla degradante ambizione propria – purtroppo! – ai temperamenti lirici, e lavorerà con la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero, si vedrà quello che non per forza d’inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi.
Quindi:
Saba contrappone D’Annunzio a Manzoni:
D’Annunzio è il poeta disonesto che esagera e finge passioni che non ha per ottenere una strofa più bella
Manzoni è il poeta onesto che non dice mai una parola che non corrisponda a ciò che pensa e sente e non inganna il lettore.
Il poeta onesto è quello che resiste alla dolcezza del ritmo e alla pigrizia intellettuale che “impedisce allo scandaglio di toccare il fondo” . Solo il poeta che parte dal bisogno di riconoscersi e di ritrovare se stesso sarà veramente originale e nuovo. La poesia è ricerca di verità, fedeltà alla propria verità interiore.
“Amai la verità che giace al fondo,quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica” (Amai in Mediterranee), la verità è intesa in termini freudiani come centro profondo di pulsioni ambivalenti che hanno origine nell’infanzia.
Saba è un freudiano convinto,
Delle tre scoperte, la più importante, quella che ci tocca infinitamente più da vicino, e dalla quale nessuno può più astrarre, è la psicanalisi” (da Poesia, filosofia e psicanalisi del 1946).
Per Saba i poeti sono “ i sacerdoti di Eros” perché custodiscono il principio di piacere che alimenta la vita. Come Freud, Saba crede che l’uomo adulto del tempo moderno deve perseguire il fine di portare a chiarezza , a livello di coscienza, il fondo oscuro del comportamento umano.
La poesia non cura le sofferenze dell’animo umano, ma rivela ciò che è umano nella sua dimensione più profonda e complessa.
Chiarezza è il titolo che Saba aveva preso in considerazione per il suo Canzoniere.
POESIE
AMAI di Umberto Saba
AMAI
Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.
La poesia "Amai" è stata scritta dal poeta Umberto Saba nel 1946 ed appartiene alla sezione Mediterranee del suo Canzoniere, che è una raccolta di tutti i suoi componimenti poetici.
I temi trattati sono: una dichiarazione di poetica, l'amore per la bellezza semplice, la passione della verità, il desiderio di comunicazione con il pubblico.
“Amai” rappresenta un chiaro manifesto di poetica, necessario per comprendere fino in fondo la poesia di Umberto Saba. La poesia venne composta a Roma nel 1945.
Il testo è formato da due quartine e un distico finale , con schema di rime ABBC CDDE EF, dove solo il primo e l’ultimo verso non sono rimati, gli altri rimano tra loro in rima baciata e l’ultimo verso di una strofa rima con il primo della strofa seguente. I versi sono tutti endecasillabi, tranne il verso 3 che è un trisillabo.
l primo Novecento è il secolo delle avanguardie: i futuristi vogliono “uccidere il Chiaro di Luna”, esaltano la velocità dei motori e la fiducia nel progresso.
I crepuscolari si sono arresi a quella che sembra la fine della poesia: il poeta vate non c’è più, la poesia è vuota, non ha più nulla da dire, né tantomeno da insegnare.
L’aureola è caduta nel fango e i poeti laureati sono chiusi nelle soffitte, incoronati da rami di ciliegio.
Qui risiede il coraggio di Saba ed il suo essere originale ed innovativo compiendo il solo atto che nessuno sembra in grado di compiere: tornare alla tradizione.
“Amai”, dice Saba. Il verbo è già una chiara scelta, un ritorno all’amore, contro tutti coloro che, una volta ucciso Il chiaro di Luna, e il romanticismo da esso rappresentato, scelgono solo il progresso e la merce.
Ma anche contro i crepuscolari che si vergognano di essere poeti.
“Amai trite parole..”: le parole “trite” sono le parole troppo usate, quelle già sentite, l’angoscia del poeta novecentesco che ne cerca di nuove per non stare a ripetere ciò che già è stato detto.
Tuttavia, in chiara contrapposizione con “trite”, “non uno osava” più utilizzare questa parole, a causa della fobia di scadere nell’ovvio.
Saba rivela quanto sia in realtà tutt’altro che ovvia e tutt’altro che facile la ripresa della tradizione: alla rima “fiore amore”, così banale, quasi da filastrocca di prima elementare, vengono attribuiti due aggettivi superlativi “la più antica ” e ” più difficile” del mondo. E se “la più antica” ci suggerisce un’idea di facilità, in quanto rima immediata, apparentemente scontata, essa è la “più difficile”, in quanto è arduo il saperla utilizzare con abilità di poeta.
“Amore” è il centro della poesia, la sua rima con “fiore” ricorda l’atto erotico e di genesi della vita, ma la sua centralità è messa in luce dalla triplice anafora del verbo “amare” ad inizio di ogni strofa, al passato remoto nelle prime due ed al presente nell’ultima, in una climax temporale, ma anche come simbolo di un amore fedele, che dura nel tempo fin nel presente. Il significato profondo della poesia risiede nella seconda strofa, dove la poesia stessa assume un ruolo fondamentale: “amai la verità che giace al fondo/ quasi un sogno obliato, che il dolore/ riscopre amica”.
Il significato è molto innovativo, figlio nella neonata psicanalisi, che Saba conosce grazie alle sue sedute con Edoardo Weiss.
La poesia, come la psicanalisi, ha un valore terapeutico, essa può riscoprire un dolore che è stato rimosso, secondo la concezione freudiana, perché troppo doloroso da sopportare.
La “verità che giace al fondo” non è prerogativa del solo poeta -vate, ma tramite il dolore, ogni essere umano può coglierla. La Conoscenza è sepolta dentro l’essere umano, al fondo, Saba dirà, nel “Secondo Congedo”, che essa è un abisso, coperto da molte rose.
Già Ungaretti aveva definito questa Conoscenza tramite l’immagine del Porto Sepolto, luogo recondito dell’anima, tutta da scoprire e dissotterrare, da far emergere dagli abissi.
L’ultima strofa, infine, mostra il rapporto tra lettore e poeta, che richiama il rapporto tra paziente e psicanalista, se vogliamo continuare a leggere la poesia in questa nuova prospettiva.
La cosa fondamentale è la dichiarazione del tipo di poesia che Saba vuole praticare : “la buona carta” è simbolo di una poesia onesta, poesia figlia del protagonista di questa lirica, Amore.
Parafrasi
Amai le parole logorate che nessun poeta osava più utilizzare.
Mi piacque, in particolare la rima fiore e amore, tra le più antiche e quindi tra le più difficili da usare.
Amai la verità più nascosta che si trova in fondo all'animo umano, quasi un sogno dimenticato, che tramite il dolore ci permette di giungere alla verità di noi stessi (riscopre amica).
Con timore il cuore si accosta a questa profonde verità ma una volta scoperta non l'abbandona più.
Amo te (lettore o pubblico) che mi ascolti e la poesia che è come una carta da gioco vincente che il poeta getta sul tavolo solo alla fine della partita (come estrema risorsa).
Analisi del testo
Schema metrico: endecasillabi sciolti, liberamente rimati; eccetto il v. 3, composto da un'unica parola isolata, di tre sillabe (è un ternario).
La lirica è scandita in tre momenti grazie alla ripetizione anaforica del verbo amare, che compare due volte al passato (Amai) e una al presente (Amo).
La prima strofa insiste sugli aspetti formali. Il poeta afferma con orgoglio (parole che non uno / osava; la più antica difficile del mondo) la propria predilezione per un vocabolario semplice, povero in apparenza, che vive di accostamenti scontati come la rima fiore / amore.
La seconda strofa passa al piano dei contenuti. La poesia, per Saba, è una ricerca di verità, che va scoperta nel fondo del cuore umano e comunicata agli altri. Il tema della verità che giace al fondo richiama l’aspetto autobiografico del Canzoniere: una sorta di romanzo psicoanalitico, che ripercorre le proprie esperienze alla ricerca delle oscure ragioni dell’essere.
Nella terza strofa il poeta coinvolge il lettore: la vera poesia sa creare un profondo legame d’affetto tra il poeta e il suo destinatario, entrambi chiamati a condividere un’unica, preziosa esperienza.
Molte parole della poesia tradizionale paiono logorate dal lungo uso: ebbene, Saba coraggiosamente dichiara di voler riscattare queste trite parole, di voler restituire loro la freschezza e pregnanza di significato che avevano alle origini. Assume a modello Francesco Petrarca, che nel suo Canzoniere aveva raggiunto un intenso lirismo utilizzando parole comuni, quelle di valore universale, che sono patrimonio di tutti. Perciò nelle rime di "Amai" compaiono vocaboli quali fiore, amore, dolore, cuore.
Il gusto della bellezza semplice e comune suggerisce a Saba l’amore per la musicalità, e quindi:
per la cantabilità sei settenari, degli ottonari, delle rime baciate: si vedano, qui, le rime fiore / amore; mondo / fondo; dolore / cuore; abbandona / buona;
Figure retoriche
Iperbole: Amai / M'incantò (v.1 e v.2).
Metafora: trite parole (v. 1) / osava (v. 2) / che il dolore riscopre amica (vv. 6-7).
Anafora: Amai (v. 1 e v. 5).
Personificazione: la verità (v. 5) / il cuore (v. 6).
Metafora e latinismo: quasi un sogno obliato (v. 6).
Enjambements: vv. 1-2, vv. 2-3, vv. 5-6, vv. 6-7, vv. 9-10.
Commento
Appartenente a una delle ultime sezioni del Canzoniere, Mediterranee, il componimento costituisce forse la migliore sintesi del mondo di Saba. Vi troviamo un'esplicita dichiarazione di poetica e
anche un'implicita polemica rivolta ai poeti ermetici di quegli anni: Saba non apprezza il loro atteggiamento di superiorità, la mancanza di comunicatività con il pubblico, l'idea di arte come
cosa aristocratica, come dono per pochi e non per tutti.
La prima strofa mostra uno stile di ricerca della comunicatività, la seconda strofa la ricerca della verità, mentre la terza il rapporto con il pubblico e la propria poesia.
Il discorso riguarda il cuore ed esprime un impegno soprattutto morale, in quanto il dolore rende amica anche la verità più dura; per Saba non c'è amore senza dolore, tanto che il "doloroso
amore" costituisce l’essenza della vita. Ma la vita è anche una fonte insostituibile di gioia e di consolazione, come risulta dai due versi conclusivi, che si riferiscono direttamente al lettore
("Amo te che mi ascolti"), per renderlo partecipe di un’esperienza che resta comunque preziosa.
La capra di Umberto Saba:
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale¹ belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva²
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi³ ogni altro male,
ogni altra vita.
¹uguale: monotono e ritmicamente sempre uguale a se stesso.
²sentiva: io sentivo (forma letteraria della prima persona singolare, dal latino sentiebam).
³querelarsi: lamentarsi
La capra fu composta da Umberto Saba nel 1909. Pubblicata per la prima volta nel 1911, all’interno della raccolta Poesie, è poi confluita nella sezione “Casa e campagna” del Canzoniere, opera che raccoglie tutta la produzione poetica maggiore di Saba.
Dal punto di vista metrico la lirica è costituita da 13 versi, distribuiti in tre strofe di varia lunghezza; si tratta di endecasillabi e settenari, tranne l’ultimo verso, che è un quinario. I versi sono liberamente rimati o assonanti.
Il poeta vede la capra, legata e bagnata dalla pioggia, e le risponde, imitandone il verso. Dapprima lo fa per scherzo («per celia»), ma poi si rende conto che in quel belato c’è l’eco di un dolore comune. E allora torna a rispondere all’animale, a “parlargli”, nella consapevolezza che tutti, uomini e bestie, sono fratelli nel dolore.
Apparentemente tutto questo potrebbe apparire fuori dall’ordinario e quasi al limite della normalità, per chi non conosca Saba e la sua straordinaria sensibilità. Come già nella poesia A mia moglie, egli non considera l’animale come un essere inferiore all’uomo, ma come una creatura nella quale sa cogliere aspetti (del fisico, del carattere, dell’atteggiamento, dei movimenti abitudinari) che sono del tutto vicini a quelli dell’uomo.
Così, in questo testo la capra perde del tutto agli occhi del poeta le sue caratteristiche di ovino e rimane creatura, come creatura è l’uomo.
Con queste premesse, allora, non è più così originale il fatto che egli risponda al verso della capra con «uguale belato fraterno».
Questi concetti, così intensi, sono espressi dal poeta con un linguaggio essenziale e suggestivo. Il lessico alterna vocaboli ricercati e fortemente letterari («per celia», «sentiva», «querelarsi») ad altri di uso comune.
Il ritmo è sobrio e pacato, mentre le rime potenziano la parola stessa, in una perfetta corrispondenza espressiva.
Per sgombrare il campo alle erronee interpretazioni che sono state date di questa poesia e, in particolare, del verso 11 («In una capra dal viso semita»), è bene precisare che la definizione «viso semita» non ha nulla a che fare né con l’origine ebraica del poeta né con il dolore del genocidio ebraico; è Saba stesso che lo chiarisce in un passo di Storia e cronistoria del Canzoniere, in cui egli attribuisce a questo verso un significato «prevalentemente visivo [come] un colpo di pollice impresso alla creta per modellare una figura».
Questo è peraltro perfettamente in sintonia con l’impostazione e lo scopo di questa lirica, che non sono assolutamente polemici, bensì propositivi: tutte le creature, uomini e animali, sono accomunate dal medesimo destino che spesso è fatto di solitudine e di sofferenza e la risposta a questo «male» consiste nal saper riconoscere nell’altro – sempre e dovunque – il proprio fratello e di instaurare con lui un dialogo, adottando anche la sua lingua, se necessario.
Trieste di Umberto Saba
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo;
e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore; come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
Trieste di Umberto Saba: la parafrasi
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho percorso una strada in salita,
trafficata all’inizio, in là più deserta,
che terminava con un piccolo muro:
un angolino in cui siedo
solo; e mi sembra che dove esso finisce,
finisca anche la città.
Trieste ha una grazia
scontrosa. Se piace,
è come un ragazzaccio rozzo e affamato,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore; [Trieste ha qualcosa di riottoso e di ribelle, che in un primo tempo può allontanare, ma «se piace», se viene compresa e amata, è apprezzata]
come un amore tormentato dalla gelosia [Trieste ha il fascino di un amore tormentato dalla gelosia].
Da questa salita vedo ogni chiesa, ogni sua via
se conduce alla spiaggia affollata
o alla collina sulla cui cima rocciosa si
accampa una casa, l’ultima.
Intorno
ad ogni cosa circola
un’aria strana, tormentosa,
l’aria della città in cui sono nato (natìa).
La mia città, che è viva in ogni sua parte,
mi riserva un cantuccio, fatto apposta per me,
per la mia vita, riservata e appartata.
Trieste di Umberto Saba: l’analisi e il commento
In questa lirica, che fa parte della raccolta Trieste e una donna (1910-1912), il poeta Umberto Saba risale una delle colline che circondano Trieste, per sedersi su un muricciolo e, solitario, contempla da lontano la città che si affaccia sul mare. Umberto Saba ama la sua città e la sente vicina, nella sua bellezza un po’scontrosa, alla sua sensibilità di uomo e di poeta. Trieste è un omaggio alla città «natìa» in cui il poeta scopre le radici della propria storia.
A mia moglie di Umberto Saba
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritorglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia¹
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.
¹pecchia: ape
A mia moglie di Umberto Saba: commento
In Storia e cronistoria del Canzoniere (un’esposizione in prosa dei temi e delle situazioni che hanno ispirato la sua poesia) Umberto Saba scrive a proposito di questa lirica: «La poesia provocò, appena conosciuta, allegre risate. Pareva strano che un uomo scrivesse una poesia per paragonare sua moglie a tutti gli animali della creazione. È la sola del nostro che abbia suscitato un po’ di scandalo».
Che la poesia A mia moglie, scritta nel 1911 (lo stesso anno in cui La capra venne pubblicata per la prima volta), abbia suscitato scandalo non stupisce: è il primo caso di una lirica in cui la donna viene paragonata ad animali umili, di cui il poeta descrive comportamenti quotidiani, il raspare, il muggire, il rintanarsi nella gabbia. Ma, in questo modo, Saba coglie la serenità delle «femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio».
I sette animali (pollastra, giovenca, cagna, coniglia, rondine, formica, pecchia) a cui è paragonata Lina, la moglie del poeta, hanno infatti la caratteristica di essere «sereni», sia perché mansueti sia perché, pur non essendo immuni da sofferenze, non hanno consapevolezza del travaglio del vivere. L’unicità della moglie, che non ha simili tra le altre donne, consiste appunto nel fatto che, come gli animali, possiede un’istintività vera e serena.
Esaminiamo il primo paragone: la pollastra è giovane, bianca, talvolta ha le piume arruffate dal vento, raspa la terra, incede lentamente, pettoruta e superba, con un passo di regina (sembra quasi che il poeta colga la moglie nella concretezza del suo aspetto e delle sue movenze). La pollastra è «migliore del maschio», come lo sono «tutte le femmine di tutti i sereni animali». Già emerge da questi versi la ragione profonda della poesia: ciò che accomuna la moglie alle femmine degli animali sono la vitalità e la mansuetudine innate, prerogativa che le rende vicine a Dio più di quanto sia qualsiasi altro essere.
Lina è anche simile a una «gravida giovenca», a sottolineare la comune vitalità femminile che si esprime in una maternità «libera» e «festosa». È una giovenca che conserva tutte le caratteristiche della sua specie: la carne teneramente rosata del collo, il muggito lungo e lamentoso che chiede un dono, così come a volte lo sollecita Lina quando è triste.
Poi viene la cagna, ardente d’amore e di devozione. La sua intensa animalità si esprime nella devozione amorosa per il padrone, ma anche nella ferocia della gelosia di cui soffre (è pronta a scoprire i «denti candidissimi» se qualcuno tenta di avvicinarsi).
La coniglia invece è timida e paurosa, ma ha il coraggio di strapparsi il pelo per imbottire il nido dei suoi piccoli (ritorna il tema della maternità). Se è priva di cibo si rannicchia in se stessa cercando gli «angoli bui», così che nessuno potrebbe avere il coraggio di farle del male, come nessuno potrebbe far soffrire la moglie del poeta.
Della rondine la donna ha una caratteristica esteriore (si muove in modo aggraziato) e una connotazione simbolica (annuncia la primavera, portando al poeta una nuova vita): per giunta è una rondine «fedele», come la cagna, perché in autunno non lascia il nido.
Nella formica e nell’ape scorgiamo i simboli della previdenza, della saggezza, della laboriosità. Della formica parla la nonna al bimbo che l’accompagna, riferendosi probabilmente alla nota favola (La cicala e la formica clicca qui) in cui la lungimiranza della formica si contrappone alla spensierata imprudenza della cicala.
In sostanza, attraverso le similitudini con i vari animali, Saba esalta la vitalità femminile della donna, manifestando una concezione profondamente positiva degli istinti naturali, e non un’opinione irriverente. Anzi, come scrisse lo stesso poeta: «La poesia ricorda piuttosto una poesia religiosa […] scritta come altri reciterebbe una preghiera».
Certo dopo secoli di liriche in cui le donne sono state paragonate ad angeli luminosi, a esseri venuti «da cielo in terra a miracol mostrare» (Dante Alighieri, Tanto gentile e tanto onesta pare clicca qui), la dimensione terrena e umana delle similitudini che descrivono Lina stupisce, ma contemporaneamente affascina e conquista.
A mia moglie, infatti, è una poesia anticonformista non solo nei confronti della tradizione letteraria, ma soprattutto perché in essa il poeta fa ricorso a similitudini-tabù. Di tutte le possibili femmine a cui Lina poteva essere paragonata, il poeta ha infatti scelto:
– una gallina, che nell’immaginario comune evoca la stupidità (tanto quanto l’oca), anche se, a ben guardare, il termine pollastra non equivale al termine gallina: la pollastra è “una giovane ragazza piacente e ingenua” (Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti 1977), e come tale richiama l’idea di sessualità, non quella di stupidità;
– una vacca, ingentilita con il sinonimo giovenca;
– una cagna e una coniglia, paragoni frequentemente usati in senso erotico, ma con un significato spregiativo.
E allora? Come spiegare l’uso di similitudini così irriverenti?
Saba, in realtà, usa queste parole nella loro accezione pura, primitiva e incontaminata, senza allusioni alle connotazioni che nel linguaggio comune sottendono. D’altra parte, in Storia e cronistoria del Canzoniere, lo stesso Saba definisce A mia moglie «una poesia infantile; se un bambino potesse sposare e scrivere una poesia, scriverebbe questa», a voler dire che non ci sono disprezzo e misoginia, anzi grandissima tenerezza.
Questa scelta di stile rientra nei canoni di quella “poesia onesta” (così è definita la poesia di Saba), che esprime in modo semplice e diretto ciò che c’è in fondo all’anima, prescindendo dall’uso comune di alcune parole. Le parole di Saba vogliono dire semplicemente quello che significano, perchè egli ama «la verità che giace al fondo» (in Amai di Umberto Saba clicca qui).
In definitiva, nella poesia A mia moglie Saba usa quelle espressioni per fondere erotismo e senso di maternità. Tale fusione è espressa pienamente nelle tre femmine descritte nelle strofe centrali: la giovenca (gravida, festosa, languida mentre si lascia accarezzare), la cagna (dolce e feroce, ma soprattutto santa e devota) e la coniglia (timida ma attenta, pronta al sacrificio per i suoi piccoli). La rondine, la formica e l’ape, rappresentano infine le virtù familiari, perché mettono in evidenza più la moralità che la sensualità.
Comunque lo si voglia giudicare, questo componimento di Saba è una grande e originalissima poesia d’amore.
A mia moglie di Umberto Saba: analisi
C’è nel componimento un certo rigore costruttivo: l’architettura complessiva è basata su sei strofe ineguali (dai ventiquattro versi della prima agli otto della quinta), formate da versi di varia lunghezza (il primo verso di ogni strofa è sdrucciolo, con l’eccezione della terza strofa), scandite ritmicamente dalla stessa anafora di apertura. Lo schema metrico è del tutto libero.
A ciascuna strofa corrisponde un animale, tranne che all’ultima che ne presenta due; le prime quattro strofe si concludono con note di tristezza e di sofferenza.
Il lessico è comune, tranne poche eccezioni (come «assonna», «ti quereli», «provvida»), e il registro stilistico è colloquiale.
La sintassi, apparentemente lineare (poche subordinate, prevalentemente relative), è in realtà mossa dalle molte figure d’inversione («il collo china», «tanto è quel suono lamentoso» ecc.): anzi, alla sintassi è spesso affidato il compito di riscattare la quotidianità del linguaggio.
Accorta è la distribuzione delle rime che si presentano spesso in posizione baciata (vv. 8-9, 14-15 ecc.); più raramente in posizione alternata (vv. 22-24, 28-30 ecc.); ma il più delle volte a distanza, con attente riprese e modulazioni. Talvolta le rime sono sostituite da figure foniche meno forti, come la quasi-rima (vv.11-12), l’assonanza (vv, 2-5, 26-27, 50-51 ecc.), la consonanza (vv. 57-59). L’effetto è quello di una musicalità calda e semplice, a metà strada tra l’ingenuità di una poesia infantile (secondo quanto Saba stesso disse) e la cadenza di una preghiera.
Mio padre è stato per me “l’assassino”;
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”:
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.
METRO: sonetto – (ABAB ABAB CDE CDE)
Alcune essenziali notizie biografiche risultano utilissime per comprendere appieno questa lirica, che possiede comunque una chiarezza essenziale.
Bisogna dunque sapere che la madre del poeta fu abbandonata dal marito, Ugo Edoardo Poli, prima che il figlio nascesse; e la donna descrisse sempre al poeta il proprio padre in termini durissimi,
definendolo spesso “assassino”, dato che non solo aveva distrutto la famiglia ma anche le speranze della sua giovinezza. Saba era dunque cresciuto portandosi dietro quell’immagine negativa del
genitore, fino a quando, all’età di vent’anni, lo conobbe e lo scoprì straordinariamente simile a se stesso, non soltanto nei tratti fisici ma anche nella volubilità dell’animo, da cui aveva
ereditato il “dono” della poesia.
La struttura della poesia, semplice come gran parte della produzione di Saba, segue un procedimento simmetrico: alla figura paterna sono dedicate le due quartine, mentre nelle terzine è
l’immagine materna a dominare. Ne emerge infine una contrapposizione fra due mentalità assai differenti, ma il recupero dell’immagine paterna non scalfisce la figura della madre: il poeta mostra
infatti un senso di compassionevole amorevolezza verso questa donna oppressa dai “pesi” della vita ed incapace, per carattere e cultura, di comprendere la natura inquieta del compagno. “Anche
l’ammonizione a non assomigliare al padre, pur nella sua severità, è dettata dall’amore, tanto che Saba, comprendendone la sostanza, conclude il sonetto senza formulare accuse: è stata la
diversità dei temperamenti a determinare l’inevitabile distacco.
Il tema
Questo, è uno dei rari componimenti in cui il poeta Saba parla del padre. Qui egli “racconta” ai lettori (ma il tono è quello della confessione lirica) del padre, del suo difficile rapporto con la moglie, dell’odio di questa. Poi ce ne rivela il carattere e sottolinea le straordinarie affinità, non solamente fisiche, che lo legavano al padre. Quindi sottolinea la diversità di carattere fra i due genitori e l’impossibilità della loro convivenza, lo scontro di «due razze» che egli stesso avrebbe sentito, in seguito, in lotta dentro di sé.
Intenzione comunicativa
Saba descrive i sentimenti provati da lui stesso e da sua madre nei confronti del padre. Egli racconta di come abbia sempre avuto una pessima opinione del padre, l’«assassino», come lo chiamava sua madre, ma poi, dopo i vent’anni, scoprì che buona parte del carattere paterno era passata a lui.
Struttura del testo
Sonetto con rima incatenata: ABAB ABAB CDE CDE; la rigida struttura metrica provoca alcune pesantezze stilistiche come le aspre inversioni («e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto»; «mia madre tutti sentiva della vita i pesi”;) e abbondanza di parole tronche (andò, più, sfuggì,…;).
Analisi del testo
Nel sonetto viene sottolineato il contrasto tra leggerezza paterna e pesantezza materna, attuando un rovesciamento del ruolo maschile con quello femminile: infatti per l’autore la madre ricopriva
il ruolo dell’autorità inflessibile e della punizione (per solito attributo del padre) e il padre il ruolo della trasgressione, della fuga e del piacere. Mentre la madre sentiva tutti i pesi
della vita, il padre è definito come un bambino, «dolce e astuto, gaio e leggero»; curioso e capace di stupirsi: tutto quanto si avvicina al «dono» della poesia proviene all’autore dal padre
stesso. A causa del suo comportamento trasgressivo, dell’abbandono della famiglia, dei molti viaggi e delle tante donne avute, la moglie si riferiva al marito con l’appellativo di «assassino» e
incitava l’autore a non diventare come il padre (in tal modo veniva delineato un modello pedagogico negativo). Infine «eran due razze in antica tenzone» spiega la conflittualità nel rapporto tra
madre e padre, ulteriormente complicato dalla diversa appartenenza religiosa: la madre ebraica e il padre cristiano. E quella conflittualità il poeta la rivive in prima persona, tra le due anime
che convivono dentro di sé.
Nel primo enunciato, Saba descrive subito l’odio che provò per il padre, usando soprattutto l’aggettivo “assassino”. Inoltre spiega che il dono di scrivere poesie lo ha avuto dal padre
stesso.
Nel secondo enunciato, cioè nella seconda strofa, l’autore racconta in brevi parole come era il padre e cosa fece: aveva gli occhi di colore azzurrino, come i suoi, un “sorriso dolce e astuto” e
andò vagabondando per il mondo incontrando più di una donna che lo ha amato e mantenuto.
Nell’ultimo enunciato, cioè nella seconda terzina, il poeta riporta il continuo ammonimento della madre di non diventare mai come il padre; ma, annota l’autore, la cosa non andò così (vedi I
enunciato). Negli ultimi due versi dice che più tardi sentì dentro di sé che erano due razze in un contrasto da sempre esistito: la madre era ebrea e il padre veneziano (più pessimista l’ebreo,
più ottimista il veneziano).
Commento
La poesia «Mio padre è stato per me l’assassino» fa parte dei quindici sonetti autobiografici contenuti nell’opera di Saba intitolata «Autobiografia», scritta alla fine del 1922: Saba vi racconta la propria vita fino al momento in cui intraprese la professione di libraio antiquario. In questa poesia, il cui significato è sintetizzato nel verso finale («Eran due razze in antica tenzone»), Saba ricorda il radicale contrasto, di cultura e di temperamento, che divise i genitori ancora prima della sua nascita: avevano due caratteri che erano legati alla diversa razza di appartenenza. Per lui la madre ricopriva il ruolo dell’autorità inflessibile e della punizione, e il padre ricopriva invece il ruolo della trasgressione, della fuga, dell’affermazione del principio del piacere.
Le principali figure presenti sono: Metonimia al v. 5 (“sguardo azzurrino” per occhi azzurri: l’astratto per il concreto); Antitesi al v. 6 (“sorriso in miseria” e “dolce e astuto”); Anastrofe ai vv. 7, 10 e 11; Enjambement al v. 9-10; Allitterazione al v. 12 (in N e Z).